martedì 18 novembre 2014

LABORATORIO TEATRALE PERMANENTE


E' cominciato il Laboratorio Teatrale Permanente del Teatro a L'Avogaria di Venezia, due incontri settimanali, mercoledì e giovedì, dalle 19,00 alle 21,00.
Esploriamo insieme l'intreccio impalpabile e magico che lega ognuno di noi alla sua voglia di esprimersi e comunicare.
Ci muoviamo nello spazio e nella ragnatela delle relazioni in un continuo incontro-scontro tra ciò che cerchiamo di fare intenzionalmente e coscientemente e ciò che invece ci accade spontaneamente e imprevedibilmente.
Il lavoro che faremo insieme è un lungo percorso che assaggia doppi binari, quello della consapevolezza e quello dell'improvvisazione, quello dell'emotività e quello della lucidità, quello della fiducia e quello dell'egoismo.
In teatro si è se stessi, ma si è anche altro, quell'altro che alla finzione affida la propria verità.
"Io lo faccio coi baffi Macbeth, me li sono attaccati intenzionalmente un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione..." (Eduardo - L'Arte della Commedia)
Vi aspetto...

lunedì 3 novembre 2014

LI RICONOSCERO' UNO A UNO

"Li riconoscerò uno a uno"
partecipa alla III edizione di Teatri in Provincia organizzati dal Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea.
E' un testo che mi accompagna da molto, credo che la prima stesura sia addirittura degli anni '90, il suo titolo era "Veglia" e aveva la presunzione di indagare le pieghe dell'animo umano in una situazione di costrizione come può essere la prigionia di guerra. Le costrizioni, non è una gran novità la mia, sono da sempre momenti illuminanti e rivelatori della condizione umana. Con questa e altre migliori intenzioni il testo di "Veglia" finiva nel 2006 in ECCE HOMO, spettacolo sulla caduta dell'uomo e la banalità del male, come recitava il sottotitolo stesso. Dopo ECCE HOMO il testo è tornato di nuovo a confondersi tra idee e messe in scena di vario genere, due anni fa , insieme ad altri frammenti, l'ho proposto come saggio finale alla Scuola Giovanni Poli del Teatro a l'Avogaria di Venezia, ma questa volta il progetto è naufragato per una serie di ragioni. Da quel momento però il lavoro sul testo è ripreso, approfondendo le relazioni tra le due donne protagoniste e l'ambivalente desiderio di amicizia e complicità che le lega. Così è nato "Li riconoscerò uno a uno", dove la violenza alle donne, la violenza brutale e collettiva che solo una guerra civile può generare, si mescola al sentimento sottile e disperato che costringe due donne, private dei loro stessi nomi, x e y nel testo sono le uniche due lettere che le distinguono, ad incontrarsi, a barattare brandelli di amicizia per un folle sogno, quello di ritrovare un giorno i responsabili della loro prigionia.
Storia di violenza, complicità e vendetta.
Nei prossimi mesi in dieci teatri d'Italia.

domenica 19 ottobre 2014

A VENEZIA IL MERCANTE E' SLAVO

IL MERCANTE DI VENEZIA
di William Shakespeare
con Silvio Orlando
e Popular Shakespeare Kompany
regia Valerio Binasco

visto al Teatro Goldoni di Venezia il 17/10/2014

recensione apparsa su www.teatro.it


Ancora una volta, dopo aver visto Il Mercante di Venezia per la regia di Valerio Binasco, ci troviamo di fronte alla solita domanda: come mettere in scena oggi un classico? 

Che sia Shakespeare o Gogol o Goldoni il risultato sembra non cambiare, la via prescelta è l’eccesso, la modernizzazione pacchiana, l’occhiolino alla televisione, l’ammasso di codici e di ridondanze

Nel caso specifico le ridondanze si chiamano gag.


Tutta la messa in scena di questa “cupa contro-favola”, come spiega Binasco nelle sue note di regia, è segnata da un rincorrersi di gag e di interventi machiettistici, dal Lancillotto Gobbo in formato Macario/Buster Keaton alla Porzia Barbie in abito confettino, dallo scarico dello sciacquone che Shylock tira dopo aver riflettuto sull’opportunità di concedere il prestito di tremila ducati a Bassiano fino ai siparietti di Nerissa che al suono del suo grammofono improvvisa ancheggiamenti da avanspettacolo.


D’altronde, è sempre Binasco a precisarlo nel programma di sala, “… noi dobbiamo fare del mercante una grande favola, e una festa del teatro. Cioè della speranza”. E dunque per questa grande festa del teatro che veniamo sommersi per quasi tre ore di spettacolo da gag di cui forse anche Totò stenterebbe a riconoscere la paternità, come quando uno dei personaggi batte distrattamente sul tavolo le nocche e poi si volta alle sue spalle per vedere chi ha bussato? E’ perché “la vita può essere lo stesso una festa”, Binasco dixit, che subiamo costumi da cartoon, coriandoli a profusione, i tratti cutoliani del buon Antonio, il melting pot improbabile dei dialetti di Lorenzo e Graziano? 

Sì, sarà per questo, sarà perché “è l’ora stramba del teatro, quando sorge una luna di carta, e il vento accarezza le foglie senza fare alcun rumore”, ancora Binasco ancora il programma di sala, sì dev’essere sicuramente per questo, è l’unica non-spiegazione che si può per davvero accettare.


E sarà sempre per lo stesso motivo, Mercante di Venezia= festa del teatro, che il nostro Shylock affronta la sua penosa e incredibile vicenda biascicando le sue ragioni in una terrificante cadenza slavoalbanese, nella quale Silvio Orlando si muove come il noto elefante che, chissà perché, si trova proprio in una cristalleria? E chissà perché Shylock deve parlare proprio così e chissà perché Silvio Orlando deve sacrificare le sue chances attoriali sull’altare di una goffa impalcatura linguistica che non gli appartiene. Non gli appartiene al punto che spesso ne ruzzola giù, lasciando trapelare la freschezza e la veridicità del suo partenope language che tutti in sala, ne sono sicuro, avrebbero apprezzato, ma che, per insondabili motivi, è stato accuratamente sepolto. 

Il risultato a quel punto è scontato: sulla scena c’è uno Shylock falso, povero sul piano espressivo e mortificante su quello interpretativo.


Gli altri interpreti, facenti parte della Popular Shakespeare Kompany che ha avuto il suo battesimo ufficiale con La Tempesta al Festival Shakespeariano di Verona nel 2012, per lo più gridano a squarciagola, esibiscono una retorica vocale che mal si accorda con l’impianto moderno della messe in scena, si compiacciono delle trovate che, e ben si vedeva, in molti casi sono frutto dell’improvvisazione del momento.


Che dire? Per fortuna c’è ancora Shakespeare e la potenza di un testo che, soprattutto nella lunga scena del processo, tiene alta attenzione e tensione, per fortuna ci sono le luci di Pasquale Mari rigorose e delicate e per fortuna ci sono le musiche di Arturo Annecchino che sono, come sempre, una spanna oltre.



lunedì 2 giugno 2014

QUANDO I GIOVANI DIVENTANO GIGANTI

LE DONNE AL PARLAMENTO

di 
ARISTOFANE 

CONVITTO NAZIONALE "G. BRUNO" DI MADDALONI


Il destino dei classici, nomen omen, sta nell’attraversare i tempi, rimanendo meravigliosamente uguali a se stessi mentre con fittizia noncuranza elargiscono manciate di ricchezza alla sensibilità presente. Su come recepire i loro insegnamenti e renderli appetibili alla contemporaneità, il dibattito si perde nella notte dei tempi: dal medioevo ad oggi il numero di imitazioni e reinvenzioni è talmente alto da scoraggiare qualsiasi tentativo di sintesi. Il teatro, poi, quello della grande stagione drammaturgica antica, sospeso tra respiro tragico e sconcezze comiche, si è sicuramente prestato più di altri a maquillage e ripuliture, fior fiore di poeti lo hanno risvelato alle scene, Quasimodo e Pasolini per dirla in due nomi soltanto, filologi e cattedratici come Dario Del Corno hanno addirittura fatto sold out con letture e lezioni spettacolo, registi e attori hanno infine disseminato le scene con coraggiose prove avanguardistiche o rispettose edizioni integrali. Ma non basta. La forza dei classici, come da tempo ormai propone con appassionata energia il caro amico Alberto Camerotto, è quella di essere contro e quel contro ingloba in sé infinite declinazioni, ma tutte riconducibili, a mio modesto avviso, alla necessità di rintracciare in essi il supremo privilegio del dubbio da opporre alla sciatta sicumera del presente. Ecco allora che le Donne al Parlamento, ovvero Ecclesiazuse, di Aristofane messo in scena dal Laboratorio di Teatro Antico del Liceo Classico “G. Bruno” di Maddaloni, guidato da tre scapestrati entusiasti come Corrado Santamaria, Gianrolando Scaringi e Gianluca Zimmermann, dà l’esatta misura di quanto appena detto senza tema di smentite. In primo luogo il coraggio. Portare in scena Aristofane, soprattutto quando non si tratta dell’abusata Lisistrata e si rinuncia ad ammiccamenti voyeristici, è già di per sé una sfida, se a questo si aggiunge che per Romagnoli l’Ecclesiazuse era la commedia in cui si compiva uno dei passi definitivi per transitare dalla maschera alla persona, è chiaro allora l’impegno a sviluppare personaggi  con i quali costruire un coerente disegno interpretativo. In secondo luogo la forza esplosiva con cui Aristofane è calato sui giovani studenti che ci hanno messo la faccia, per dirla con un’espressione tanto in voga oggi. La parola dell’antico si è dispiegata nel gioco scenico lasciando che i giovani interpreti ne assaporassero forza e colore, che su quel palcoscenico per davvero salissero sulle spalle dei nostri più lontani maestri di pensiero, divenendo così simili a giganti. Un’operazione teatrale certo, alla quale non è mancata qualche interessante trovata come l’utilizzo dei lunghi capelli femminili a mo’ di barba una volta annodati sotto il mento o il non cedere alla tentazione, sempre presente quando si ha a che fare con laboratori teatrali scolastici, di dare troppo spazio alle parti corali, anche quando non ce ne sarebbe affatto bisogno, ma anche un’operazione culturale che ci riporta alle considerazioni di partenza. I classici devono irrompere nella quotidianità e nel caso di una scuola, di un liceo classico in particolare, evolversi da lingua scritta e stampata a lingua viva e partecipata. La lingua del teatro, certo, ma soprattutto la lingua di una comunicazione che non teme confronti con l’attualità, una lingua che può essere parlata da giovani generazioni e ascoltata con curiosità, una lingua che genera applausi e ringraziamenti, una lingua infine che è fuoco acceso intorno al quale ritrovarsi e raccontare storie. Come un tempo, quando nelle sere più buie e invernali giovani e anziani confondevano i loro tratti intorno al fuoco di un camino, lì si intrecciavano storie, lì prendevano corpo umanissime riflessioni. Ecco, guardando poche sere fa l’Ecclesiazuse di questi ragazzi che qui non nominerò, ma i cui nomi sono in  locandina, guardandoli ho pensato proprio a questo, che intorno a questo fuoco vivificante che è il mondo dei classici antichi c’è davvero posto per tutti. Adesso sotto a chi tocca.

venerdì 18 aprile 2014

ANCORA UN MONOLOGO, ANCORA UNA SCENA VUOTA

L'AIUTANTE DI BRUSEK

di e con Stefano Pietro Detassis
testo di Carlo Cenini


visto a Teatro a l'Avogaria - Venezia il 15/04/2014
recensione apparsa su www.teatro.org






Cosa si può scrivere di uno spettacolo come “L’aiutante di Brusek” scritto da Carlo Cenni, diretto e interpretato da Stefano Pietro Detassis, andato in scena come penultimo appuntamento della rassegna dei Martedì al Teatro de l’Avogaria di Venezia? La domanda, per niente retorica, conduce invece a una risposta che forse bisogna di maggiori spiegazioni.
Dunque, “L’aiutante di Brusek” è un monologo, uno di quelli che spopolano ormai nei circuiti delle piccole sale, dove l’incasso è quello che è e bisogna pur tirare avanti in qualche modo. Quindi una scena generosamente vuota, l’ennesima, con una sedia/sgabello, l’ennesima/o, posta al centro del palco e illuminata con ostinazione da fari che di tanto in tanto passano da una gelatina all’altra per sottolineare un movimento, se movimento si può chiamare un cambio di seduta foriero di chissà quali significati reconditi. 

lunedì 24 marzo 2014

UNA BUONA IDEA MERITA PIU’ DI TRENTACINQUE MINUTI

COMMA 212

TESTO E REGIA  H2O NON POTABILE

CON
Jacopo Giacomoni
Vincenzo Tosetto
Marco Tonino
visto a Teatro a l’Avogaria il 18/03/2014
recensione apparsa su www.teatro.org.

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E’ sempre elettrizzante vedere all’opera nuove realtà, essere travolti da quella spregiudicatezza che solo certa caparbietà giovanile riesce a intraprendere, avere la netta consapevolezza che nuovi orizzonti drammaturgici e interpretativi si stanno dischiudendo proprio lì davanti ai tuoi occhi. 

E’ sempre elettrizzante, è vero, ma a volte anche drammaticamente deludente, perché se la maturità scenica in alcuni casi non ha altro da offrirti che gli affilati meccanismi del mestiere così lo slancio giovanilistico di certe formazioni si arrotola su se stesso, divenendo purtroppo presuntuoso e autoreferenziale.

lunedì 17 marzo 2014

Lo snobismo indagatore di Camilla Cederna

 NOSTRA ITALIA DEL MIRACOLO

drammaturgia e regia Giulio Costa
con Maura Pettorusso
una coproduzione Trento Spettacoli/Arkadis

visto a Teatro a l'Avogaria - Venezia 11/03/2014 
recensione apparsa su www.teatro.org


Alla sinistra degli spettatori, poggiato in terra, anonimo e quasi innocente nel suo automatismo, sta un tritacarte, di quelli che fanno bella mostra negli uffici, di quelli che abbiamo immaginato tante volte preziosi complici di chi si libera di tracce e documenti compromettenti. Dai grigi uffici delle polizie segrete ai crak di casa nostra, parmalat o ambrosiano che siano.

Il tritacarte si fa metafora di una condizione, distrugge e nasconde, assolve e salva.

In Nostra Italia del Miracolo, un titolo che strizza l’occhio a Genet, scritto e diretto da Giulio Costa, per una coproduzione di Trento Spettacoli e Arkadis, il tritacarte ingurgita, per tutta la durata dello spettacolo, interi pezzi di storia italiana nella forma di pagine di giornale che l’attrice in scena piega con cura, calpesta furiosa, sparge sul palcoscenico con rabbia. Dal ventre di quel tritacarte è possibile ricucire il percorso storico e sociale di un’Italia che, a partire da quel famoso ventennio, non ha mai smesso di vivere in un perenne fascismo, un fascismo di idee e di costumi, di leggi e di caporalato economico.

A raccontarci questa Italia del miracolo o, per meglio dire, questa Italia miracolata e, pur tuttavia, sempre in cerca di un nuovo miracolo o di chi, quanto meno, il miracolo lo può promettere, è Camilla Cederna, donna coraggio in un mondo, come quello del giornalismo, fisiologicamente maschilista, indagatrice instancabile di scenari che altri avrebbero voluto tenere nascosti, fustigatrice sorniona e implacabile delle mode e dei costumi. Giulio Costa disegna una Cederna avvolta nelle sue parole come un fumatore incallito nel fumo delle sue mille sigarette, parole che ha eletto ad arma privilegiata, parole che sono, in ogni caso, come tutto quello che hanno comunque saputo raccontare, destinate a polverizzarsi in un tritacarte che non si stanca mai della sua voracità.

Maura Pettorusso si muove su un palcoscenico spoglio, appena il famigerato tritacarte e uno scrittoio con pochi fogli di carta sul quale campeggia una bottiglia di acqua San Pellegrino, affabula, racconta se stessa, inerpicandosi tra immagini di vita quotidiana e incontri eccezionali, quello con Ferrari per esempio, mantenendo sempre una semplicità espressiva che si contrappone felicemente ai fili di perle che le ornano il collo o il polso. Altre volte il linguaggio si fa cantilenante e morbido, le spigolosità sono ridotte all’osso, l’annoiata stanchezza borghese di chi guarda gli altri e vuole dagli altri essere guardata prende allora il sopravvento conducendosi nel chiuso e protetto mondo di certi salotti da frequentare, ma anche da fuggire, o sbattendoci in faccia le drammatiche sequenze di ferite mai rimarginate, come la strage di Piazza Fontana.

Un personaggio controverso e difficile quello della Cederna, la cui arte, a volte a dire il vero ce ne prende il sospetto, sembrava spesso consistere nell’affilare un certo snobismo e farlo diventare arma contundente. Un personaggio difficile nel quale Costa e la Pettoruto entrano con atteggiamento analitico, quasi da ricercatori della verità, mantenendo per questo motivo asciuttezza recitativa ed essenzialità dell’impianto drammaturgio-scenico come prova del nove proprio di quella verità che, sottobraccio alla Cederna, vanno cercando. La verità di un’Italia persa tra misteri e ambiguità, mode e ondate di sdegno, massonerie corporative e fascismi più o meno palesi.

lunedì 10 marzo 2014

Storia di Rina Cavalieri, classe 1914…

CUOR

testo e regia Sandra Mangini
con Eleonora Fuser

visto al Teatro a l’Avogaria – Venezia il 9/03/2014
recensione apparsa su www.teatro.org
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Ci sono persone che racchiudono nella loro storia personale storie molto più grandi, nelle quali riconoscersi è un processo semplice e liberatorio insieme. Sono storie di persone piccole, ma speciali, la cui umanità oscilla tra sofferenza quotidiana e leggerezza, quella leggerezza che, unica, ti fa comprendere ciò che può essere davvero importante e ciò che invece faresti meglio a dimenticare.

La storia di Clementina Cavalieri, detta Rina, è una di queste. E’ una storia che viene da lontano, dalle viscere profonde di una Venezia popolare che ha attraversato il sogno imperialistico di Mussolini, poi la guerra, poi ancora l’occupazione tedesca, infine la liberazione, e in ognuno di questi passaggi si è ritrovata ferita, dilaniata e tradita. Rina è una donna minuta, ma forte come mai nessuno, al punto che non le sarebbe dispiaciuto nascere uomo, come un uomo fa prove di forza, solleva una tavola di marmo con la bocca, come un uomo, o meglio, come avrebbe dovuto fare un uomo, affronta gli alti gradi della gerarchia tedesca, Hoffmann, il padrone di Venezia, e gli sbatte in faccia la sua condizione di donna sola, di madre con due figli da sfamare, di essere umano pronta a tutto. E Rina è davvero pronta a tutto, a vendicare l’olio di ricino inflitto al padre, ad intervenire per difendere un uomo solo circondato da soldati americani che se lo palleggiano come un birillo, a mettere sotto sopra reparti di un intero ospedale perché a una povera donna anziana venga data dignitosa sistemazione.

Cuor, lo spettacolo scritto e diretto da Sandra Mangini, andato in scena al Teatro a l’Avogaria di Venezia, esplora il mondo di questa infilatrice di perle, mestiere che Rina eredita dalla madre, mantenendosi in bilico tra il ritratto della donna che senza paura sfida ogni tipo di ingiustizia e una Rina invece più intima e privata, nella quale i momenti di fragilità completano il quadro di una figura complessa e sfaccettata. In scena Eleonora Fuser cavalca e doma la sua Rina, lasciandola andare a briglia sciolte nei momenti in cui interagisce con il pubblico o quando dietro una piccola ribaltina montata in proscenio si esibisce nei più noti successi di Beniamino Gigli illuminando per un attimo la sua vita come quella di un’artista di varietà, ma trattenendola poi nei momenti in cui sono le pieghe più profonde della sua anima a dover trovare respiro, in ginocchio davanti alle caldaie dove è stata destinata, nera di fumo e di caligine, come una mater dolorosa guarda con coraggio a quello che ancora potrà venire.

Lo spettacolo rinuncia a qualsiasi retorica, Rina non è un eroe, un capo popolo o una mestierante delle masse, Rina è l’essere umano radiografato nella sua essenzialità, nella sua mescolanza di bene e male, a volte difficile da discernere, benché è proprio in tale mescolanza che contraddittorietà e grandezza di ogni umana creatura trovano posto.

Lo spettacolo dunque procede senza retorica, ma affidandosi alla forza del linguaggio, con cui la Fuser gioca come un funambolo ad alta quota. E’ uno spettacolo di affabulazione questo, l’elemento narrativo prevale su quello diegetico raccogliendo energie da un dialetto corposo, concreto, dove ogni sonorità schiude livelli semantici insospettabili. Il gioco della tombola, con cui si apre e chiude la messa in scena, tanto caro nella realtà alla protagonista, diventa pretesto per mettere in piedi modi di dire, espressioni proverbiali e pittoresche, scampoli di saggezza popolare, per aggiungere insomma quel sapore di verità indispensabile quando non si ha la pretesa di raccontare storie fini a se stesse, ma storie di uomini e di donne in carne e ossa.

domenica 9 marzo 2014

LA VITA NON E' UNA NAVE PIRATA

IDOLI

drammaturgia di Gabriele di Luca
con Gabriele Di Luca, Giulia Maulucci, Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi

visto al Teatro Goldoni di Venezia  8/8/2014
recensione pubblicata su www.teatro.org






Lo diciamo subito e senza giri di parole. Idoli di Carrozzeria Orfeo, nato in coproduzione con Centro Rat-Teatro dell’Acquario e con il contributo del Teatro Stabile del Veneto, è uno spettacolo onesto, di quell’onestà assolutamente non prevedibile sul palcoscenico di un teatro stabile, come può essere il Goldoni di Venezia.
Uno spettacolo onesto perché scevro da angoscianti spasimi intellettuali, perché tenero e barbaro insieme, perché infine desolatamente contemporaneo. Una scrittura incisiva, scabra ed essenziale, che però mai si ripiega su se stessa e soprattutto mai autoreferenziale. E’ la forza questa di una scrittura, che parte da Gabriele Di Luca, ma che diventa subito collettiva, evitando così il conflitto esclusivamente verbale e la dimensione monologante, aprendosi invece alle tante voci di una microsocietà qualunque: una coppia, una famiglia, un nipote e un nonno, sono questi i protagonisti tra i quali trovano posto noia di vivere, apatia morale, vuoto interiore, rabbia e frustrazioni.

mercoledì 5 marzo 2014

IO SONO IL GRIDO


Il mio testo FERITA DI CARNE  all'interno del libro-catalogo Io sono il grido a cura di Laura Oddo, Liliana Paganini, Francesca Taormina (Palermo marzo 2014)



sabato 1 marzo 2014

IL SANGUE DI ANTIGONE DI JOSE' BERGAMìN

Antigone non ha bisogno di presentazioni. 
sangre di anVive nella memoria e nell’immaginario di tutti. Il suo sacrificio, il sangue versato, il martirio cui si è sottomessa appartengono alle radici più profonde dell’essere umano. La giovane ribelle si sottrae all’editto del tiranno Creonte per seppellire, seppur simbolicamente con una manciata di terra, il fratello Polinice, caduto così come la profezia del padre Edipo aveva previsto, per mano dell’altro fratello Eteocle, considerato però difensore di Tebe e perciò sepolto con gli onori dovuti. Antigone innesca così lo scontro, epico e violento, tra dovere familiare e dovere politico, la sfera degli affetti eterni e immutabili contro l’incomprensibile giustificazione delle leggi di stato. Chi ha ragione? A chi la palma della vittoria? Josè Bergamìn, drammaturgo e intellettuale spagnolo appartenente alla cosiddetta “generazione del ‘27” insieme a Lorca, Alberti, Guillén e tanti altri, si inserisce nella ricchissima e fiorente tradizione di scritti e testi teatrali che affrontano, rivisitano e approfondiscono, quasi Sofocle avesse voluto della sua tragedia fare un vero e proprio lascito per l’eternità, la vicenda di Antigone. Bergamìn scrive “Il sangue di Antigone”nel 1955, durante il suo esilio a Parigi, lavorando a quattro mani con il musicista spagnolo Salvador Bacarisse, l’opera è infatti concepita come un dramma musicale e la sua genesi è quanto mai interessante. Nel 1955 Bergamìn e Bacarise incontrano a Parigi Roberto Rossellini che sta cercando per Ingrid Bergman un ruolo recitato a carattere liturgico, nasce così l’idea di lavorare intorno al mito eterno di Antigone, Bergamìn avrebbe scritto il testo, Bacarisse la musica, la Bergman sarebbe stata l’interprete.

martedì 25 febbraio 2014

TUTTA COLPA DI MIO MARITO


TEATRO A L'AVOGARIA, DORSODURO 1617 - VENEZIA
prenotazioni al 335372889

VENERDI' 28 FEBBRAIO ORE 21,00
SABATO 1 MARZO ORE 21,00

Clelia e Renato sono due perfetti sconosciuti, ma accade che un giorno si incontrino, complice una spiaggia, il sole, la brezza del mare. L’amore ha dunque bisogno di occasioni impreviste? Non lo si può escludere del tutto, ma una coincidenza non basta mai da sola, così per Clelia e Renato cominciano una serie di incontri sempre meno fortuiti, ma sempre più rocamboleschi, grotteschi, addirittura surreali. Fino a quando decideranno di imprimere alla loro storia una direzione del tutto inaspettata, inaspettata e fatale insieme, che trascina ad un finale assurdamente esilarante…


sabato 1 febbraio 2014

QUANDO IL NUOVO CHE AVANZA E' GIA' DIETRO LE SPALLE

L'ISPETTORE GENERALE 

di Nikolaj Vsil'evic Gogol


adattamento drammaturgico e regia  Damiano Michieletto

con Alessandro Albertin, Silvia Paoli, Eleonora Panizzo, Fabrizio Matteini, Alberto Fasoli, Michele Maccagno, Alessandro Riccio, Luca Altavilla, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Pietro Pilla

recensione pubblicata su www.teatro.org
visto al Teatro Goldoni di Venezia 31/01/2014



















In una sudicia e sperduta cittadina russa una cricca di loschi e patetici figuri scambiano un giovane impiegato del ministero per l’ispettore generale inviato dal governo centrale. Il risultato sarà l’irriverente e atroce satira con cui Gogol tratteggia l’intoccabile burocrazia zarista incarnata da una piramide di potere che dal Podestà arriva fino all’ufficiale postale e che ha come contraltare lo spiantato Chlestakov, che, da falso ispettore, si lascia corrompere a sua volta dai funzionari corrotti.

Tutto qui. Un equivoco, niente di più. Capace però di generare quel capolavoro che la critica letteraria russa, dopo una prima tiepida accoglienza, riterrà perfino superiore a Molière. La furberia di Osip, la scrocconeria di Chlestakov, i ridicoli sotterfugi di Anton Antonovic, podestà di ultima serie e truffatore dilettante, la fatua vanità di Andreevna sua moglie, moltiplicano l’equivoco iniziale indagando quella particolare tendenza della coscienza umana che è la disponibilità ad ogni forma di compromesso.
Un vizio, non una condizione. Un vizio su cui anche un uomo mite e religioso come Gogol poteva permettersi di sorridere.

Ecco che invece Damiano Michieletto, nella messinscena di cui firma l’adattamento drammaturgico (quale?) e la regia, per una coproduzione del Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile dell’Umbria, nell’ansia di dare sostanza al suo pedigree di enfant prodige della scena italiana e compiaciuto per aver intuito il grottesco che si cela nella vicenda, costruisce uno spettacolo dove il grottesco più che cogliere l’assurdità dei personaggi gogoliani resta appiccicato agli attori che li interpretano, all’impianto scenico dove tutto è esattamente così come si vede in una miscela di finto realismo piuttosto sconcertante, all’idea stessa, infine, che sottende l’intera operazione, l’idea cioè di una dissacrazione che però non ha il coraggio di essere tale fino in fondo.

martedì 28 gennaio 2014

UN SOGNO QUASI CINEMATOGRAFICO

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

per corpi e ombre


da A Midsummer Night's Dream
di Felix Mendelsshon-Bartolhdy

con Ina Broeckx; Maria Focaraccio, Valerio Iurato, Walter Matteini, Armando Rossi

regia e scene Fabrizio Montecchi
coreografia Walter Matteini
maschere e sagome Nicoletta Garioni
costumi Corinne Lejeune
luci Cesare Lavezzoli

visto al Teatro Goldoni di Venezia il 24/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org


Gli spettatori si accomodano in sala, mentre sulla scena cinque ballerini si attardano nei loro esercizi di riscaldamento, gettando distrattamente un occhio al pubblico che va riempiendo platea e loggioni.
Il Sogno di una notte di mezza estate del Teatro Gioco Vita comincia cosi’, come una performance degli anni ’70, come se sul palco, ad accogliere il pubblico, ci fosse ancora Julian Beck e il suo Living. Invece no, non è una performance da teatro rivolta, questa, anzi qualcosa di esattamente opposto allo svelamento dei meccanismi scenici e alle prerogative di un teatro a vista cosi’ in voga nella ricerca teatrale di quegli anni.
Questo Sogno è un’opera, come recita il sottotitolo, per luci ed ombre e come tale rapisce lo spettatore e lo deposita nel bosco che Puck si diverte a incantare e irretire nella sua magia, nulla viene svelato, le strane e fantastiche creature che popolano la scena sono il frutto delle sapienti invenzioni e della maestria di Nicoletta Garioni e Federica Ferrari, le sagome e le maschere, colpite, rifratte e scomposte dal disegno luci di Cesare Lavezzoli diventano una giostra di colori e forme, di profondità e profili cangianti che dilatano lo spazio, lo sezionano e infine lo moltiplicano accentuando il gioco illusorio. Dunque, lo spettatore si lascia immergere in questa magnifica illusione e neanche per un istante ha la tentazione di sfondare la quarta parete per vedere cosa si celi dietro ciò che vediamo. C’è una dimensione quasi cinematografica in questa estasi illusoria, una dimensione da cinematografia primordiale, quella dei superotto casalinghi, per intenderci, con la pellicola che sbatte sul proiettore e accompagna la visione con il suo caratteristico rumore, quella da cinema Paradiso, per non lesinare esempi, quando appunto il cinema poteva essere un sogno, magari sbavato e rumoroso, e non l'esito di una nitida e fredda perfezione fotografica che ha sacrificato la luce e, per l'appunto, le ombre.
Di che cos’altro infatti sono impastati i sogni? La domanda shekeasperiana per eccellenza, quella che investe anche l’uomo, ombra egli stesso di un sogno come recita Pindaro nel suo famosissimo verso, trova in questa messa in scena, se non una risposta, quanto meno comprensione: vivere appieno un sogno significa navigare nella luce in attesa che le ombre ci facciano compagnia con la loro vana inconsistenza, inseguire quello che appare ma che non è, giocare infine a rimpiattino con se stessi e gli altri scomponendosi e ricomponendosi in mille modi, per poi scoprire che essenza del sogno stesso è non stringere nulla di eterno nel palmo della propria mano.
Ecco perché la scelta, in ogni senso condivisibile, di spogliare il testo del bardo di Standford dalle storie di Teseo e Ippolita, lasciando a Puck il solo compito di seguire l’amore delle due coppie, Ermia e Lisandro, Demetrio e Elena, risulta vincente e funzionale all’idea tanto della regia di Fabrizio Montecchi, che firma anche le scene, quanto della coreografia di Walter Matteini. L’amore è l’essenza stessa del sogno, monopolizza ogni nostra illusione vitale, ogni progettualità ed ecco allora che in scena le vicende amorose delle due coppie, che si separano e si mescolano fino a tornare nella loro originaria composizione, sono fulcro della storia, ma anche del sogno stesso.

Ina Broeckx, Maria Focaraccio, Valerio Iurato, Walter Matteini e Armando Rossi amplificano e riducono la loro fisicità, i corpi si sciolgono nell'ombratile presenza degli spiriti del bosco e le ombre ritrovano poi consistenza riemergendo nelle forme della realtà corporea, con movimenti a tratti nervosi e pieni, a tratti invece sinuosi e certamente più astratti. Il gioco tra uomini e ombre si dipana per tutto lo spettacolo, senza mai concedere attimi di tregua, mentre la partitura sonora di Félix Mendelssohn-Bartholdy offre ulteriori punti di accesso al bosco magico e alle illusioni messe in pratica da Puck. Ne risulta uno spettacolo equilibrato, intenso e accattivante, fino a quando quella magia, che ha costretto cinque semplici ballerini in tuta da lavoro a trasformarsi nei personaggi del Sogno, si dissolve restituendo allo spettatore una dimensione dove la realtà è padrona assoluta e il sogno bisogna raccattarselo come poveri mendicanti.

sabato 18 gennaio 2014

MANDRAGOLA di Machiavelli

Più riguardo a La mandragola

 Il mondo della Mandragola sembra non prevedere sfumature, ma procedere per una divisione netta,che non fa sconti: da una parte i furbi, gli scaltri, quelli "dai molti pensieri" come l'Odisseo omerico, dall'altra, invece, gli sciocchi, i creduloni, quelli che, per l'appunto, possono credere che una pozione fatta di erba mandragola sia in grado di ingravidare una donna. Tuttavia, ed è questa la stupenda invenzione drammaturgica, mentre sul piano concettuale a tale divisione corrisponderebbe una naturale contrapposizione, sul piano scenico non c'è guerra, i due eserciti più che scontrarsi si fondono, si percorrono a vicenda, dimostrando che l'essenza del mondo, seppur generata da un dualismo, non sta affatto nella sua rigida ripartizione, ma in un variegato intreccio. Tutti i personaggi sono parte di un gran carrozzone, dove i confini tra bene e male appaiono molto più difficili da decifrare di quanto sembrerebbe: Callimaco è furbo, mette sul piatto di una scommessa amorosa tutta la sua onorabilità, fingendosi quel che non è, ma sa trattare con grande delicatezza e rispetto la sedotta Lucrezia; Messer Nicia, al contrario, è ingenuo nella sua scioccaggine, ma al tempo stesso si mostra capotico e ferisce con la sua arroganza maschilista la giovane moglie; Fra Timoteo si presta al gioco di convincere Lucrezia citando con dovizia di particolari e latinismi esempi delle sacre scritture, salvo poi pentirsi del malfatto, pentimento che però non produce alcun cambiamento; Lucrezia, infine, per tacere degli altri personaggi, riservata e timorata di Dio, che una volta provato il piacere della carne con chi è molto più giovane del proprio marito, non sa più rinunciarci, come probabilmente ogni donna farebbe. La Mandragola, dunque, è una gran commedia umana, dove l'uomo si scompone in tante sfaccettature che si rispecchiano in chi gli è di fronte, dove ogni più solida convinzione frana sotto i colpi dell'ingegno più spregiudicato, dove anche il peccato può, se visto da una certa ottica, diventare opportunità da cogliere al volo. Se tutto questo è vero allora anche una semplice pozione di Mandragola ha diritto ad essere considerata il più grande medicinale che possa esserci!

lunedì 13 gennaio 2014

LA NOIA DI HEDDA


HEDDA GABLER

di H. Ibsen


con
Manuela Mandracchia, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Luciano Roman, Massimo Nicolini, Laura Piazza.

Regia di Antonio Calenda


visto al Teatro Goldoni di Venezia il 10/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org




Ibsen scrive il dramma di Hedda Gabler nel 1890 quando la sua produzione drammaturgica è ormai giunta alla piena maturità e i palcoscenici europei se lo contendono, lo scrive come terzo e ultimo tempo di una trilogia tutta al femminile che comprendeva Rosmersholm (1886) e La Signora del mare (1888), in cui il grande tema nascosto dell’incesto ritorna oscuro e deflagrante.
Hedda Gabler, pur avendo appena sposato Tesman, ha mantenuto il cognome di suo padre, il grande generale Gabler che campeggia arcigno e onnipresente in un ritratto nella sala di fondo della nuova casa che accoglie gli sposi al ritorno del viaggio di nozze, scena con cui ha inizio l’intera vicenda. In quella stessa sala Hedda sposterà il pianoforte, altro lascito paterno, e lì custodisce le pistole d’ordinanza del generale, in una sorta di santuario dedicato alla memoria del padre dove i fiori che arrivano come doni nuziali si trasformano immancabilmente in omaggi funebri. E’ in quella stanza infine che Hedda, dopo essersi allontanata tanto dal ricatto sessuale del giudice Brack tanto dall’assurda mania filologica di Tesman e Thea Elvsted impegnati a ricostruire gli appunti lasciati da Lovborg, si ucciderà con l’ultima pistola paterna rimastale e dopo aver suonato un’ultima volta il pianoforte, quasi a voler ricapitolare tutta la propria vita.