lunedì 24 marzo 2014

UNA BUONA IDEA MERITA PIU’ DI TRENTACINQUE MINUTI

COMMA 212

TESTO E REGIA  H2O NON POTABILE

CON
Jacopo Giacomoni
Vincenzo Tosetto
Marco Tonino
visto a Teatro a l’Avogaria il 18/03/2014
recensione apparsa su www.teatro.org.

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E’ sempre elettrizzante vedere all’opera nuove realtà, essere travolti da quella spregiudicatezza che solo certa caparbietà giovanile riesce a intraprendere, avere la netta consapevolezza che nuovi orizzonti drammaturgici e interpretativi si stanno dischiudendo proprio lì davanti ai tuoi occhi. 

E’ sempre elettrizzante, è vero, ma a volte anche drammaticamente deludente, perché se la maturità scenica in alcuni casi non ha altro da offrirti che gli affilati meccanismi del mestiere così lo slancio giovanilistico di certe formazioni si arrotola su se stesso, divenendo purtroppo presuntuoso e autoreferenziale.

E’ il caso di Comma 212, lo spettacolo andato in scena come terzo appuntamento della tranche primaverile dei Martedì del Teatro a l’Avogaria nel centro storico di Venezia, ideato e realizzato dagli H2O Non Potabile, giovane compagnia del territorio che ha mosso i suoi primi passi all’interno del polo universitario veneziano di Ca’ Foscari.
Comma 212 si presenta, almeno nelle intenzioni dei suoi autori e interpreti, come un tentativo di esplorare, con gli occhi di Franz e Stan due fantomatici centralinisti impegnati a vendere ogni sorta di prodotto di cui gli essere umani non possono in alcun modo privarsi, lo stato di mercificazione in cui la società contemporanea sembra essere piombata, mercificazione che produce a ben vedere due risultati: da un lato la qualificazione di ogni rapporto umano e sociale sulla base della sua spendibilità e riconoscibilità economica, dall’altro l’inevitabile sottomissione di un tale modello sociale ad un grande occhio controllore che decide di volta in volta dove e come indirizzare i gusti dei suoi concittadini/schiavi.
Una favola moderna, insomma, dove sarcasmo e ironia grottesca dovrebbero segnare la cifra di questa società/prodotto nella quale non c’è spazio per alcuna forma di resistenza, chi si oppone va piegato  e in casi estremi spezzato. Ma cos’è che poi gli spettatori vedono davvero sulla scena? Innanzitutto un abbozzo di spettacolo. I trentacinque minuti della messa in scena danno l’esatta misura di qualcosa che ha trovato la partenza ma non l’arrivo. Uno studio, un work in progress, secondo definizioni molto in voga, che però, per amor di verità, avrebbe dovuto essere annunciato, ne avrebbe certamente giovato lo spettacolo stesso che, invece, così com’è, più che a uno studio si avvicina a un incompiuto, a qualcosa che presume di essere ma non è.
Non c’è nè elaborazione nè evoluzione nella storia di Franz e Stan che, in base alle loro vendite, avanzano con la sedia in una sorta di pista con tanto di corsie, mentre il supervisore misura con il proprio metro i progressi o i regressi dei due telefonisti. C’è poi la presenza ingombrante quanto fantozziana del presidente dell’azienda che come una luce, anzi è solo una luce, si relazione con il supervisore dal quale riceve vere e proprie attestazioni di sudditanza. Tutto, i soliti trentacinque minuti  di cui sopra, procede come se i nostri attori, che sono poi anche gli autori e i registi, fossero chiusi in un’aula universitaria a sviluppare la tematica di un seminario e il compito è farlo con originalità e magari un pizzico di genialità.
Ne viene fuori uno spettacolo fortemente autoreferenziale, dove i protagonisti fingono di darsi poca importanza ma sono poi profondamente convinti di aver posto una pietra miliare nello sviluppo della speculazione drammaturgica. Si lanciano con foga sulle loro battute come se stessero aggredendo e ingurgitando bocconi di società marcia, come se fossero arrabbiati, ma intelligentemente ironici. 
Uno spettacolo apologo, dunque, più che spettacolo denuncia, il cliente 212, una donna a quanto è dato di capire, non vuole acquistare dall’azienda/grande fratello l’uso della parola e questo comporterà il non poter più parlare con uno dei due telefonisti, il più sfigato, con il quale intreccia una storia d’amore via cavo, almeno così si sarebbe detto un tempo. A quel punto sarà il telefonista stesso a vendergli l’ultimo e più costoso dei pacchetti dell’azienda, quello del suicidio, ottenendo in tal modo la promozione finale e vincendo la gara con il suo collega competitor.
Si spengono le luci, lo spettacolo è terminato, l’estremo paradosso, cui fa riferimento il titolo, preso a prestito da Joseph Heller, e come spiega il foglio di sala, ci è passato davanti fugacemente senza che avessimo il tempo di coglierlo. Rimane l’idea, un’idea che se condotta con vera spregiudicatezza garantirebbe esiti sicuramente migliori.
Aspettiamo fiduciosi, una buona idea merita più di trentacinque minuti.