lunedì 17 marzo 2014

Lo snobismo indagatore di Camilla Cederna

 NOSTRA ITALIA DEL MIRACOLO

drammaturgia e regia Giulio Costa
con Maura Pettorusso
una coproduzione Trento Spettacoli/Arkadis

visto a Teatro a l'Avogaria - Venezia 11/03/2014 
recensione apparsa su www.teatro.org


Alla sinistra degli spettatori, poggiato in terra, anonimo e quasi innocente nel suo automatismo, sta un tritacarte, di quelli che fanno bella mostra negli uffici, di quelli che abbiamo immaginato tante volte preziosi complici di chi si libera di tracce e documenti compromettenti. Dai grigi uffici delle polizie segrete ai crak di casa nostra, parmalat o ambrosiano che siano.

Il tritacarte si fa metafora di una condizione, distrugge e nasconde, assolve e salva.

In Nostra Italia del Miracolo, un titolo che strizza l’occhio a Genet, scritto e diretto da Giulio Costa, per una coproduzione di Trento Spettacoli e Arkadis, il tritacarte ingurgita, per tutta la durata dello spettacolo, interi pezzi di storia italiana nella forma di pagine di giornale che l’attrice in scena piega con cura, calpesta furiosa, sparge sul palcoscenico con rabbia. Dal ventre di quel tritacarte è possibile ricucire il percorso storico e sociale di un’Italia che, a partire da quel famoso ventennio, non ha mai smesso di vivere in un perenne fascismo, un fascismo di idee e di costumi, di leggi e di caporalato economico.

A raccontarci questa Italia del miracolo o, per meglio dire, questa Italia miracolata e, pur tuttavia, sempre in cerca di un nuovo miracolo o di chi, quanto meno, il miracolo lo può promettere, è Camilla Cederna, donna coraggio in un mondo, come quello del giornalismo, fisiologicamente maschilista, indagatrice instancabile di scenari che altri avrebbero voluto tenere nascosti, fustigatrice sorniona e implacabile delle mode e dei costumi. Giulio Costa disegna una Cederna avvolta nelle sue parole come un fumatore incallito nel fumo delle sue mille sigarette, parole che ha eletto ad arma privilegiata, parole che sono, in ogni caso, come tutto quello che hanno comunque saputo raccontare, destinate a polverizzarsi in un tritacarte che non si stanca mai della sua voracità.

Maura Pettorusso si muove su un palcoscenico spoglio, appena il famigerato tritacarte e uno scrittoio con pochi fogli di carta sul quale campeggia una bottiglia di acqua San Pellegrino, affabula, racconta se stessa, inerpicandosi tra immagini di vita quotidiana e incontri eccezionali, quello con Ferrari per esempio, mantenendo sempre una semplicità espressiva che si contrappone felicemente ai fili di perle che le ornano il collo o il polso. Altre volte il linguaggio si fa cantilenante e morbido, le spigolosità sono ridotte all’osso, l’annoiata stanchezza borghese di chi guarda gli altri e vuole dagli altri essere guardata prende allora il sopravvento conducendosi nel chiuso e protetto mondo di certi salotti da frequentare, ma anche da fuggire, o sbattendoci in faccia le drammatiche sequenze di ferite mai rimarginate, come la strage di Piazza Fontana.

Un personaggio controverso e difficile quello della Cederna, la cui arte, a volte a dire il vero ce ne prende il sospetto, sembrava spesso consistere nell’affilare un certo snobismo e farlo diventare arma contundente. Un personaggio difficile nel quale Costa e la Pettoruto entrano con atteggiamento analitico, quasi da ricercatori della verità, mantenendo per questo motivo asciuttezza recitativa ed essenzialità dell’impianto drammaturgio-scenico come prova del nove proprio di quella verità che, sottobraccio alla Cederna, vanno cercando. La verità di un’Italia persa tra misteri e ambiguità, mode e ondate di sdegno, massonerie corporative e fascismi più o meno palesi.