sabato 28 novembre 2015

DIARIO DI UN LABORATORIO - 1

Novembre. Giro di boa di un mese sospeso tra caldarroste e vino caldo. E' il 15 ed è Domenica. Anche Venezia ci mette il suo, cielo grigio e freddo pungente. Davanti alla porta del Teatro a l'Avogaria c'è una strana processione, chi arriva chiede se è proprio lì che dovrebbe stare. Strette di mano e qualche nome comincia a prendere corpo, Alfredo, Marta, Manuela, Annamaria... siamo qui per... ma sei tu che... ho parlato al telefono con... è una riunione di carbonari questa, mezze parole, frasi smozzicate, accenti stonati... si entra, sì dai si entra, gli altri arriveranno, gli altri chi sono? Non lo so, non lo so chi sono gli altri, ma quando arriveranno non saranno più gli altri, saranno noi. E' così che comincia. Sempre. E' così da sempre il primo giorno di una laboratorio teatrale, e quest'anno non abbiamo fatto eccezione. E' come un imbuto, l'ingresso è stretto, ma scivoloso al tempo stesso, e quando il collo dell'imbuto è percorso tutto atterri sulle tavole nere di un palcoscenico piccolo ma che ci contiene tutti. E' così. E' sempre così. Sono passate due settimane da quel 15 Novembre e il collo dell'imbuto è già un ricordo. Raffaello, Giorgia, Stella, Daniela, Manuela, Marta, Alfredo, Maria, Annamaria si scambiano messaggi su whatsapp, programmano uscite serali per il prossimo lunedì, mettono piede al Goldoni nella loro doppia veste di spettatori consapevoli e attori coraggiosi. Sono un gruppo oramai, hanno smesso di essere singole comparse di un inizio. Sono forti e pieni. Pieni di tante cose che vogliono rovesciare su quelle tavole nere, ma non per se stessi, piuttosto per metterle in comune e poi pizzicare nel mucchio per prendere quello che per ognuno di loro luccica di più. L'ho capito da un esercizio. Uno di quei classici esercizi da laboratorio, di quelli che servono per aumentare l'empatia reciproca e favorire la costruzione del gruppo. A turno ci si ferma nel centro del palcoscenico e si aspetta che qualcuno arrivi ad abbracciarti. E se non arriva nessuno? Beh, pazienza allora. Ma se qualcuno arriva bisogna abbracciarsi. Osservavo gli abbracci, ma dopo un po' mi sono reso conto che gli abbracci erano diventati la parte meno interessante dell'esercizio. Perchè la parte più interessante era fuori da quegli abbracci, erano quelli seduti a terra che guardavano gli abbracci dei compagni. Erano lì a guardare i loro compagni abbracciarsi con la stessa intensità con cui avrebbero guardato un evento eccezionale, con gli stessi occhi con cui avrebbero osservato un miracolo compiersi davanti a loro. E' che quegli abbracci erano delle piccole storie e quindi scatenavano un'emozione, sì d'accordo sarà stato così, ma il punto è un altro. Per sentire l'emozione di un abbraccio che vedi davanti a te, tra l'altro un abbraccio che nasce per un esercizio, ecco per sentire un'emozione del genere devi essere pronto. Devi essere, come dicevo prima, pieno. Ecco, i miei amici che si sono imbarcati in quest'avventura teatrale con me, che mi aiutano a popolare un palcoscenico altrimenti vuoto, sono già pieni e hanno voglia di trovare nella pienezza reciproca qualcosa di prezioso. Che luccichi al punto tale che valga la pena afferrarlo. E dunque si parte. Alla ricerca del prezioso che c'è in ognuno di noi. Che c'è. C'è sempre.
Intanto ognuno di loro ha provato a far diventare importante un oggetto qualunque, perchè possa nascere una storia. Queste storie hanno già un titolo ma aspettano di essere vissute.
Nel prossimo diario sarò pronto a raccontarvele.
Intanto aspettiamo che Raffaello, Giorgia, Stella, Daniela, Manuela, Marta, Alfredo, Maria, Annamaria a queste storie comincino a dare un'anima.

giovedì 17 settembre 2015

GIRGENTI, AMORE MIO...




"GIRGENTI, AMORE MIO..."

di Angelo Callipo & Gianfranco Jannuzzo

con Gianfranco Jannuzzo

musiche di Francesco Buzzurro
scene di Salvo Mancigli

Regia 
Pino Quartullo

L’amore di Gianfranco Jannuzzo per la sua terra, per la sua Girgenti che è incrocio di mito e realtà,
mi ha colpito subito. Mi ha colpito soprattutto la tenacia di ricordi che non si sono mai spenti e, conseguentemente, la volontà di trasformare i ricordi in suggestioni, in immagini e infine queste stesse immagini in parole. Come in una agorà greca, Gianfranco parla a tutti, svelando il profondo legame con Girgenti e con la Sicilia.
Questo legame è stato per me una scintilla, mi ha permesso di capire che ognuno ha la sua terra,
ma che ogni terra custodisce, per tutti, un grumo di sensazioni che si assomigliano in maniera sorprendente. Così ho scritto di Sicilia, io che siciliano non sono, perché in essa ho visto quella
stessa terra arcaica che anch’io, e come me tutti, mi porto dentro e che, a mio modo, e grazie alla genialità interpretativa di Gianfranco, ho contribuito io stesso a raccontare. Ci sono infiniti modi per parlare delle proprie radici. In “Girgenti amore mio…” lo abbiamo fatto a quattro mani, avendo sempre chiara l’idea che a quel Girgenti ognuno potesse sostituire il nome della propria città o del proprio paese. “Girgenti amore mio…” può diventare così “Milano amore mio…” o “Genova amore mio…” o mille altri luoghi. Perché le emozioni non hanno targhe di appartenenza, i problemi che ci affliggono non sono cittadini di una sola città, i personaggi che ci fanno ridere non hanno casa solo nelle città degli altri. Così, abbiamo raccolto la Girgenti, che era di Gianfranco, e ci siamo sforzati di farla diventare la Girgenti di tutti, mettendoci dentro le personali esperienze ma anche la consapevolezza, ben salda, che non c’è nulla di così personale che un’esperienza che accomuni tutti.
La più grande di tutte le esperienze, quella dell’amore per la propria terra.

martedì 10 marzo 2015

HO SALUTATO RAGHEED...

Mentre le ruspe e i picconi dell’Isis cancellano secoli di storia, trasformano rovine splendenti in rovine dannate, riducono frammenti preziosi in anonime schegge frantumate, mentre Mosul e Hatra si trasformano in mense di un furente banchetto iconoclasta, vado con la memoria alla primavera di un 2011 ormai troppo lontano anche se incredibilmente vicino.
Avevo appena firmato un contratto con l’ACS, onlus che ha sede in territorio vaticano e che si occupa, come recita l’acronimo della sua sigla, di aiuto alla Chiesa che soffre. Non avevo mai conosciuto, prima di allora, questa realtà, in fondo erano stati loro a contattarmi e io non avevo fatto altro che reperire sul web un po’ di notizie per non presentarmi al primo incontro completamente impreparato.
Così conosco il loro responsabile, ci vediamo un paio di volte a Roma e alla fine mi commissionano un testo teatrale, adattabile anche a sceneggiatura per un possibile corto o lungometraggio, sulla figura di Padre Ragheed Ganni.
Da quel momento, per quasi sei mesi, mi sono calato nella vita di questo esile e innocuo sacerdote della chiesa cristiano-caldea di Mosul, un ingegnere chiamato da una vocazione tardiva, che ottiene una borsa di studio a Roma ma poi torna a spendersi nella sua Mosul. Lì nel giugno del 2007, ad appena trentaquattro anni, cade sotto i colpi di sicari mussulmani che lo falciano all’uscita della chiesa. Aveva appena finito di celebrare la funzione di Pentecoste.
Ho affrontato questo lavoro con spirito critico e ho premesso, sin dai primi contatti con l’ACS, che non avrei scritto qualcosa di catechistico, non avrei reso assoluta la cifra religiosa, d’altronde non ne avevo allora né ho adesso le necessarie competenze, avrei piuttosto guardato l’umanità di Ragheed, la miscela di coraggio e paura che si portava dentro tornando in una terra difficile e martoriata come la sua Mosul. Per i miei committenti Ragheed Ganni era un martire del XXI secolo, per me cominciava a essere la metafora di un’inquietudine profondissima.
Nella Mosul del dopo Saddam le forze deliranti di una guerra subdola e violentissima si erano scatenate senza arretrare davanti a niente, bombe sulle chiese, bombe sugli autobus di ignari studenti universitari, atti intimidatori, fughe precipitose, emigrazioni forzate. In questo contesto matura anche l’uccisione di Padre Ragheed Ganni. Quando nel gennaio del 2012 ho consegnato il lavoro, ho ricevuto franchi apprezzamenti, intascato il mio onesto compenso di manipolatore di parole e poi sono uscito per sempre da questa storia. Ancora oggi con Massimo, il direttore responsabile,sopravvive uno scambio di auguri a Natale, ma nulla di più.
Ragheed Ganni no, lui non è affatto scomparso, ho vissuto sei mesi frugando nella sua vita, cercando di comprenderne la testardaggine, cercando finanche di capire se avesse avuto mai la percezione di essersi votato al martirio. Ho rintracciato Hassam il suo fraterno amico mussulmano con il quale ha condiviso la parentesi romana, gli ho scritto una mail ma non ho mai avuto risposta. Forse non era pronto a spiattellare a un teatrante da strapazzo i suoi ricordi più intimi e personali. Ragheed Ganni è ancora qui, come un punto interrogativo, come un nodo che non ho mai sciolto, una presenza ingombrante, un perché lasciato sospeso. A volte mi capita di metterlo da parte, mesi in cui il suo volto gioviale e profondamente sereno mi lascia stare, a volte no, a volte si fa insistente e non smette di provocarmi.
Come, appunto, in questi giorni in cui la guerra santa dell’Isis ha messo mano alla distruzione della memoria storica, quella che prescinde da qualsiasi connotazione religiosa. Ho visto le immagini del museo di Mosul sfigurato senza pietà e Ragheed è ricomparso. Neanche stavolta ho sentito che inveiva con i suoi fratelli mussulmani, neanche stavolta come quando ha dovuto raccogliere pezzo per pezzo il misero corpo di un compagno di classe di sua sorella ha sbraitato che questa potesse essere la fine. Questa non è la fine, dice Ragheed a Basman nella mia ottava scena, la vera fine sarà la fine dell’odio…
Eppure provo a rileggere quel testo, quello che avevo scritto con grande fatica, per esempio l'affascinante fatica di conoscere da vicino i riti caldei, quel testo che ingenuamente pensavo potesse essere un significativo passo avanti nella ricerca, se non proprio di una concordia, quanto meno di un compromesso accettabile,
Lo rileggo, ma alle prime battute mi accorgo di una stonatura, c’è qualcosa che non va, qualcosa che non mi torna, il mio Padre Ragheed parla con Basman, con la sorella Raghad, con Hassam e tutti gli altri personaggi, perfino con un’anonima bambina che gira per la chiesa con una strana e misteriosa bambola di nome Maria. Parlano degli attentati che fanno saltare in aria interi pezzi di Mosul, dei soprusi continui, della resistenza silenziosa ma tenace della comunità caldea, delle apprensioni, le angosce, la paura di restare soli. Quella, certo, insieme alla morte, la paura più grande da sempre. Per tutti.
Non mi occorre leggere tutto il testo per sapere come andrà a finire, lo so bene, Ragheed sarà crivellato di colpi e insieme a lui i tre uomini che lo accompagnavano e che un po’ gli facevano da scorta. Una scorta di tre diaconi, non armati. Una scorta che è già di per sé un bersaglio.
Cosa non va in quello che leggo e che io stesso ho scritto? Gli occhi leggono le battute, ma i frames video delle distruzioni di Hatra e Nimrud, i picconi che decapitano con selvaggia soddisfazione statue e bassorilievi nelle sale del museo di Mosul, si intromettono e rapidi attraversano il mio campo visivo. Parole e immagini si confondono, ma non arrivano a formare un tutt’uno. Sono discordanti, disarmoniche. Eppure lo scempio è lo stesso, scempio di vite umane, di profili cromati, di mosaici intarsiati, scempio di sentimenti e di emozioni, scempio di parole andate a vuoto e di raffiche di kalashnikov che centrano il bersaglio.
No, non è lo stesso. Per niente. Sono bastati quattro anni e il mio Ragheed è andato, ingrigito, invecchiato. Esce di scena senza aver ottenuto neanche il minimo di  quello che un ingenuo organizzatore di caratteri come me aveva immaginato. La lotta armata è un camaleonte imprendibile, adesso si chiama Isis, a quel tempo era ancora marchiata Al Qaeda, eppure mi ero illuso di raccontare un microcosmo, crudele e feroce ma pur sempre un microcosmo, invece sbattuti sulle prime pagine dei giornali e nei titoli delle televisioni ci sono loro, i jhiadisti, i frontalieri del male, che sradicano dai piedistalli la storia come se scaricassero centinaia di sacchi di patate.
Il mio Ragheed viveva un fuoco interiore, uno spasimo abissale, voleva garantire la domenica ai suoi fedeli, i militari di questa santa guerra invece di se stessi probabilmente non sanno granchè, gli unici tremori che conoscono sono le oscillazione dell’ennesima statua che cade fragorosa al suolo, inseguono una vittoria  ma non vogliono giocare la partita.
Nel 2011 avevo scelto Ragheed Ganni perché fosse metafora, oggi che le minacce hanno annichilito qualsiasi metafora ho dovuto liberarmi di lui. Per sempre.

Alla voce “vuoi cancellare definitivamente il file?” ho fatto clik su ok.