martedì 28 gennaio 2014

UN SOGNO QUASI CINEMATOGRAFICO

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

per corpi e ombre


da A Midsummer Night's Dream
di Felix Mendelsshon-Bartolhdy

con Ina Broeckx; Maria Focaraccio, Valerio Iurato, Walter Matteini, Armando Rossi

regia e scene Fabrizio Montecchi
coreografia Walter Matteini
maschere e sagome Nicoletta Garioni
costumi Corinne Lejeune
luci Cesare Lavezzoli

visto al Teatro Goldoni di Venezia il 24/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org


Gli spettatori si accomodano in sala, mentre sulla scena cinque ballerini si attardano nei loro esercizi di riscaldamento, gettando distrattamente un occhio al pubblico che va riempiendo platea e loggioni.
Il Sogno di una notte di mezza estate del Teatro Gioco Vita comincia cosi’, come una performance degli anni ’70, come se sul palco, ad accogliere il pubblico, ci fosse ancora Julian Beck e il suo Living. Invece no, non è una performance da teatro rivolta, questa, anzi qualcosa di esattamente opposto allo svelamento dei meccanismi scenici e alle prerogative di un teatro a vista cosi’ in voga nella ricerca teatrale di quegli anni.
Questo Sogno è un’opera, come recita il sottotitolo, per luci ed ombre e come tale rapisce lo spettatore e lo deposita nel bosco che Puck si diverte a incantare e irretire nella sua magia, nulla viene svelato, le strane e fantastiche creature che popolano la scena sono il frutto delle sapienti invenzioni e della maestria di Nicoletta Garioni e Federica Ferrari, le sagome e le maschere, colpite, rifratte e scomposte dal disegno luci di Cesare Lavezzoli diventano una giostra di colori e forme, di profondità e profili cangianti che dilatano lo spazio, lo sezionano e infine lo moltiplicano accentuando il gioco illusorio. Dunque, lo spettatore si lascia immergere in questa magnifica illusione e neanche per un istante ha la tentazione di sfondare la quarta parete per vedere cosa si celi dietro ciò che vediamo. C’è una dimensione quasi cinematografica in questa estasi illusoria, una dimensione da cinematografia primordiale, quella dei superotto casalinghi, per intenderci, con la pellicola che sbatte sul proiettore e accompagna la visione con il suo caratteristico rumore, quella da cinema Paradiso, per non lesinare esempi, quando appunto il cinema poteva essere un sogno, magari sbavato e rumoroso, e non l'esito di una nitida e fredda perfezione fotografica che ha sacrificato la luce e, per l'appunto, le ombre.
Di che cos’altro infatti sono impastati i sogni? La domanda shekeasperiana per eccellenza, quella che investe anche l’uomo, ombra egli stesso di un sogno come recita Pindaro nel suo famosissimo verso, trova in questa messa in scena, se non una risposta, quanto meno comprensione: vivere appieno un sogno significa navigare nella luce in attesa che le ombre ci facciano compagnia con la loro vana inconsistenza, inseguire quello che appare ma che non è, giocare infine a rimpiattino con se stessi e gli altri scomponendosi e ricomponendosi in mille modi, per poi scoprire che essenza del sogno stesso è non stringere nulla di eterno nel palmo della propria mano.
Ecco perché la scelta, in ogni senso condivisibile, di spogliare il testo del bardo di Standford dalle storie di Teseo e Ippolita, lasciando a Puck il solo compito di seguire l’amore delle due coppie, Ermia e Lisandro, Demetrio e Elena, risulta vincente e funzionale all’idea tanto della regia di Fabrizio Montecchi, che firma anche le scene, quanto della coreografia di Walter Matteini. L’amore è l’essenza stessa del sogno, monopolizza ogni nostra illusione vitale, ogni progettualità ed ecco allora che in scena le vicende amorose delle due coppie, che si separano e si mescolano fino a tornare nella loro originaria composizione, sono fulcro della storia, ma anche del sogno stesso.

Ina Broeckx, Maria Focaraccio, Valerio Iurato, Walter Matteini e Armando Rossi amplificano e riducono la loro fisicità, i corpi si sciolgono nell'ombratile presenza degli spiriti del bosco e le ombre ritrovano poi consistenza riemergendo nelle forme della realtà corporea, con movimenti a tratti nervosi e pieni, a tratti invece sinuosi e certamente più astratti. Il gioco tra uomini e ombre si dipana per tutto lo spettacolo, senza mai concedere attimi di tregua, mentre la partitura sonora di Félix Mendelssohn-Bartholdy offre ulteriori punti di accesso al bosco magico e alle illusioni messe in pratica da Puck. Ne risulta uno spettacolo equilibrato, intenso e accattivante, fino a quando quella magia, che ha costretto cinque semplici ballerini in tuta da lavoro a trasformarsi nei personaggi del Sogno, si dissolve restituendo allo spettatore una dimensione dove la realtà è padrona assoluta e il sogno bisogna raccattarselo come poveri mendicanti.

sabato 18 gennaio 2014

MANDRAGOLA di Machiavelli

Più riguardo a La mandragola

 Il mondo della Mandragola sembra non prevedere sfumature, ma procedere per una divisione netta,che non fa sconti: da una parte i furbi, gli scaltri, quelli "dai molti pensieri" come l'Odisseo omerico, dall'altra, invece, gli sciocchi, i creduloni, quelli che, per l'appunto, possono credere che una pozione fatta di erba mandragola sia in grado di ingravidare una donna. Tuttavia, ed è questa la stupenda invenzione drammaturgica, mentre sul piano concettuale a tale divisione corrisponderebbe una naturale contrapposizione, sul piano scenico non c'è guerra, i due eserciti più che scontrarsi si fondono, si percorrono a vicenda, dimostrando che l'essenza del mondo, seppur generata da un dualismo, non sta affatto nella sua rigida ripartizione, ma in un variegato intreccio. Tutti i personaggi sono parte di un gran carrozzone, dove i confini tra bene e male appaiono molto più difficili da decifrare di quanto sembrerebbe: Callimaco è furbo, mette sul piatto di una scommessa amorosa tutta la sua onorabilità, fingendosi quel che non è, ma sa trattare con grande delicatezza e rispetto la sedotta Lucrezia; Messer Nicia, al contrario, è ingenuo nella sua scioccaggine, ma al tempo stesso si mostra capotico e ferisce con la sua arroganza maschilista la giovane moglie; Fra Timoteo si presta al gioco di convincere Lucrezia citando con dovizia di particolari e latinismi esempi delle sacre scritture, salvo poi pentirsi del malfatto, pentimento che però non produce alcun cambiamento; Lucrezia, infine, per tacere degli altri personaggi, riservata e timorata di Dio, che una volta provato il piacere della carne con chi è molto più giovane del proprio marito, non sa più rinunciarci, come probabilmente ogni donna farebbe. La Mandragola, dunque, è una gran commedia umana, dove l'uomo si scompone in tante sfaccettature che si rispecchiano in chi gli è di fronte, dove ogni più solida convinzione frana sotto i colpi dell'ingegno più spregiudicato, dove anche il peccato può, se visto da una certa ottica, diventare opportunità da cogliere al volo. Se tutto questo è vero allora anche una semplice pozione di Mandragola ha diritto ad essere considerata il più grande medicinale che possa esserci!

lunedì 13 gennaio 2014

LA NOIA DI HEDDA


HEDDA GABLER

di H. Ibsen


con
Manuela Mandracchia, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Luciano Roman, Massimo Nicolini, Laura Piazza.

Regia di Antonio Calenda


visto al Teatro Goldoni di Venezia il 10/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org




Ibsen scrive il dramma di Hedda Gabler nel 1890 quando la sua produzione drammaturgica è ormai giunta alla piena maturità e i palcoscenici europei se lo contendono, lo scrive come terzo e ultimo tempo di una trilogia tutta al femminile che comprendeva Rosmersholm (1886) e La Signora del mare (1888), in cui il grande tema nascosto dell’incesto ritorna oscuro e deflagrante.
Hedda Gabler, pur avendo appena sposato Tesman, ha mantenuto il cognome di suo padre, il grande generale Gabler che campeggia arcigno e onnipresente in un ritratto nella sala di fondo della nuova casa che accoglie gli sposi al ritorno del viaggio di nozze, scena con cui ha inizio l’intera vicenda. In quella stessa sala Hedda sposterà il pianoforte, altro lascito paterno, e lì custodisce le pistole d’ordinanza del generale, in una sorta di santuario dedicato alla memoria del padre dove i fiori che arrivano come doni nuziali si trasformano immancabilmente in omaggi funebri. E’ in quella stanza infine che Hedda, dopo essersi allontanata tanto dal ricatto sessuale del giudice Brack tanto dall’assurda mania filologica di Tesman e Thea Elvsted impegnati a ricostruire gli appunti lasciati da Lovborg, si ucciderà con l’ultima pistola paterna rimastale e dopo aver suonato un’ultima volta il pianoforte, quasi a voler ricapitolare tutta la propria vita.