lunedì 13 gennaio 2014

LA NOIA DI HEDDA


HEDDA GABLER

di H. Ibsen


con
Manuela Mandracchia, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Luciano Roman, Massimo Nicolini, Laura Piazza.

Regia di Antonio Calenda


visto al Teatro Goldoni di Venezia il 10/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org




Ibsen scrive il dramma di Hedda Gabler nel 1890 quando la sua produzione drammaturgica è ormai giunta alla piena maturità e i palcoscenici europei se lo contendono, lo scrive come terzo e ultimo tempo di una trilogia tutta al femminile che comprendeva Rosmersholm (1886) e La Signora del mare (1888), in cui il grande tema nascosto dell’incesto ritorna oscuro e deflagrante.
Hedda Gabler, pur avendo appena sposato Tesman, ha mantenuto il cognome di suo padre, il grande generale Gabler che campeggia arcigno e onnipresente in un ritratto nella sala di fondo della nuova casa che accoglie gli sposi al ritorno del viaggio di nozze, scena con cui ha inizio l’intera vicenda. In quella stessa sala Hedda sposterà il pianoforte, altro lascito paterno, e lì custodisce le pistole d’ordinanza del generale, in una sorta di santuario dedicato alla memoria del padre dove i fiori che arrivano come doni nuziali si trasformano immancabilmente in omaggi funebri. E’ in quella stanza infine che Hedda, dopo essersi allontanata tanto dal ricatto sessuale del giudice Brack tanto dall’assurda mania filologica di Tesman e Thea Elvsted impegnati a ricostruire gli appunti lasciati da Lovborg, si ucciderà con l’ultima pistola paterna rimastale e dopo aver suonato un’ultima volta il pianoforte, quasi a voler ricapitolare tutta la propria vita.


Hedda è sicuramente una delle eroine più potenti del teatro moderno europeo e bene ha fatto Antonio Calenda a volerne rileggere la storia, affidando alla bravissima Manuela Mandracchia un ruolo difficile ed esaltante al tempo stesso. Calenda ha sentito tutta la seduzione di una figura femminile inquieta e palpitante, alla quale il drammaturgo norvegese ha affidato il compito di mostrare quanto una vita borghese scandita da doveri formali e impegni comunitari possa ritrovarsi sull’orlo dell’abisso per poi precipitarvi: Hedda vive nel culto del padre, ha sposato un uomo che non ama e che trova immensamente sciocco nella sua ingenuità, rifiuta di ammettere la propria maternità perché sa bene che essa è frutto di un incesto consumato ben prima delle nozze, è legata da una febbrile eccitazione allo scontroso e ambiguo Lovborg di cui si diverte a decidere vita e morte spingendolo al suicidio, trova detestabile le attenzioni soffocanti della zia di suo marito alla quale concede tuttavia un abbigliamento consono al lutto per la morte della sorella, attraversa infine le avances del giudice Brack senza mai davvero cedere per un senso di fedeltà tutto suo che la lega non allo sposo, semmai al generale di cui ha conservato il cognome.
Manuela Mandracchia percorre ogni stato d’animo di Hedda entrando nelle sue pieghe più profonde, alternando stati di esaltazione, “E’ una liberazione sapere che nel mondo possa accadere qualcosa di forte, di libero…” a rigurgiti di noia, “Io mi annoio, giudice, mi annoio…”, scatti contenuti, la zia di Tesman le posa in segno di affetto le dita sulle tempie e lei se ne libera con un “mi lasci, mi lasci”, ad abbandoni sulle dormeuses ai lati della scena o sulla panca posta al centro di essa. La regia tende a sottolineare ripetutamente l’elemento psicanalitico, peraltro già ampiamente scoperto nel testo: il rapporto edipico invertito che lega la figlia al padre, l’elemento fallico delle pistole, il rifiuto della maternità che si fa addirittura simbolo quando Hedda brucia nel camino il manoscritto di Lovborg definendolo creatura sua e di Thea “Ora brucio il tuo bambino, Thea… ecco, lo brucio, lo brucio”. Tuttavia la regia vi indugia sfiorando in alcuni momenti un eccesso di didascalismo, quando per esempio in una delle tante visite di Brack quest’ultimo si accomoda su una sedia, che tra l’altro è costretto a prendere con un movimento rocambolesco, proprio dietro il lettino su cui Hedda si è appena sdraiata, facendo così il verso alla più trita iconografia di psicoanalista e paziente.
Interessante appare, invece, il rapporto che lega la protagonista a Thea, vittima del fascino di Lovborg che rincorre spasmodicamente: Hedda gelosa di un rapporto che non le appartiene più, ma soprattutto consapevole di aver perso ogni potere su Lovborg, accoglie Thea attirandola nella sua rete, una rete dalle maglie strettissime degne di una Medea, riesumando il loro passato di compagne di scuola e sollecitando in lei una maggiore confidenza, ma colpendola poi con la condanna “Cosa pensi che dirà di te la gente?”, facendo cioè appello a quella costrizione sociale che lei ritiene invece per se stessa insulsa. Infine, alla comparsa di Tesman suo marito, decide che sia arrivato il tempo di terminare il colloquio e nonostante Thea sembri voler restare, la liquida con un “Adesso la signora Elvsted vuole andare, io credo”, e in quel io credo sta tutta la voglia di potere sugli altri di cui ella sia capace. La regia interpreta molto bene questo lungo dialogo tra Hedda e Thea, comprendendone la crucialità: Hedda è sciolta, si muove sicura e con un’elasticità cui in Thea corrisponde altrettanta rigidità, è la sicurezza della donna borghese figlia di cotanto padre e novella sposa, ma anche soprattutto la disinvoltura della sua modernità e della sua spregiudicatezza che si impongono alla paura e allo spaesamento di Thea. La spregiudicatezza di Hedda si spinge fino ad una accennata lussuria che sembra unire le due donne, Calenda costruisce una Hedda sensuale che qui gioca con i sentimenti di una Thea bambina, quasi adescandola.

L’Hedda Gabler di Antonio Calenda e dello Stabile del Friuli Venezia Giulia corre lungo le sue quasi tre ore senza stancare, anche perché il regista napoletano non rinuncia ad aprire squarci di ironia che allettano lo spettatore, ma che nella parte finale fanno virare lo spettacolo verso una tragicommedia che probabilmente Ibsen non aveva neanche immaginato. Così, nonostante una scenografia che solleva qualche dubbio (il caminetto che brilla di un fuoco grottescamente finto e che assomiglia a quelli delle statuine da presepe) e luci a tratti prive di profondità (troppo fredda e violenta, quasi un grappolo di neon, per esempio quella che arriva da fuori ogni qualvolta si aprono gli scuri delle finestre), le inquietudini ibseniane e il suo linguaggio denso, resituito dall’ottima traduzione di Roberto Alonge, arrivano al pubblico mantenendo intatto il vigore introspettivo. Lunghi e meritatissimi applausi per la Mandracchia, tra gli altri interpreti si possono segnalare Simonetta Cartia, una zia Juliane morigerata e ipocrita al punto giusto, Federica Rosellini che disegna, soprattutto nella seconda parte, una Thea nervosa e soccombente e Jacopo Venturiero calato perfettamente nella parte di un Tesman ingenuo fino al midollo. Poco incisivo il Lovborg di Massimo Nicolini e troppo accademico il Brack di Luciano Roman.