sabato 1 marzo 2014

IL SANGUE DI ANTIGONE DI JOSE' BERGAMìN

Antigone non ha bisogno di presentazioni. 
sangre di anVive nella memoria e nell’immaginario di tutti. Il suo sacrificio, il sangue versato, il martirio cui si è sottomessa appartengono alle radici più profonde dell’essere umano. La giovane ribelle si sottrae all’editto del tiranno Creonte per seppellire, seppur simbolicamente con una manciata di terra, il fratello Polinice, caduto così come la profezia del padre Edipo aveva previsto, per mano dell’altro fratello Eteocle, considerato però difensore di Tebe e perciò sepolto con gli onori dovuti. Antigone innesca così lo scontro, epico e violento, tra dovere familiare e dovere politico, la sfera degli affetti eterni e immutabili contro l’incomprensibile giustificazione delle leggi di stato. Chi ha ragione? A chi la palma della vittoria? Josè Bergamìn, drammaturgo e intellettuale spagnolo appartenente alla cosiddetta “generazione del ‘27” insieme a Lorca, Alberti, Guillén e tanti altri, si inserisce nella ricchissima e fiorente tradizione di scritti e testi teatrali che affrontano, rivisitano e approfondiscono, quasi Sofocle avesse voluto della sua tragedia fare un vero e proprio lascito per l’eternità, la vicenda di Antigone. Bergamìn scrive “Il sangue di Antigone”nel 1955, durante il suo esilio a Parigi, lavorando a quattro mani con il musicista spagnolo Salvador Bacarisse, l’opera è infatti concepita come un dramma musicale e la sua genesi è quanto mai interessante. Nel 1955 Bergamìn e Bacarise incontrano a Parigi Roberto Rossellini che sta cercando per Ingrid Bergman un ruolo recitato a carattere liturgico, nasce così l’idea di lavorare intorno al mito eterno di Antigone, Bergamìn avrebbe scritto il testo, Bacarisse la musica, la Bergman sarebbe stata l’interprete.
La fine della storia tra il regista e l’attrice fece naufragare il progetto, ma Bergamìn non smise di lavorare all’idea e, nonostante la musica di Bacarisse rimanesse inedita, alla fine “Il sangue di Antigone” vide la luce. Josè Bergamìn, a differenza della quasi contemporanea Antigone di Brecht, sposta l’attenzione dallo scontro con Creonte alla forza tragica del personaggio stesso di Antigone. Quest’ultima non sente l’autorità di Creonte e per questo motivo tende a ignorarlo più che ad opporglisi, la forza tragica è tutta in lei e da lei trabocca, perfino Emone ne viene annichilito tant’è che nell’opera dell’autore spagnolo il promesso sposo di Antigone non si toglie la vita, nè lo fa la madre, nonché sposa di Creonte, Euridice. Emone e Euridice rimangono in vita, Creonte non assiste davanti ai suoi occhi allo sgretolarsi della sua stessa famiglia, per cui tutta la tragedia si concentra inevitabilmente su Antigone e sul suo sangue versato, quello cioè del suo ghenos di appartenenza, i fratelli Eteocle e Polinice, e quello che verserà da sé togliendosi la vita. E’ infatti questa eredità di sangue a segnare indelebilmente il destino di Antigone e il sangue rimanda nella sua simbologia alla radice cristiana che Bergamìn lascia trasparire in molti passaggi. Innanzitutto, il sottotitolo dell’opera “mistero in tre atti”, che allude chiaramente alla forma rituale con cui essa è concepita, ritualità accentuata dalla scrittura in versi e dalla presenza della musica, poi la presenza di toni messianici in molti monologhi come quando Tiresia, il cieco vate venuto per avvertire Creonte dell’imminente disastro che sta per abbattersi su di lui e sulla città di Tebe, si appella alla responsabilità collettiva dei cittadini profilando all’orizzonte una linea di salvezza universale. Ma è nel III atto che la ritualità cristiana prende il sopravvento. Antigone è ormai stata condannata, il coro si presenta a lei e le offre, affinché possa sopravvivere fino al momento in cui morirà, pane e vino, nonché una spada per darsi eventualmente la morte quando lo riterrà opportuno. Non c’è bisogno di aggiungere nulla, il pane e il vino hanno già da soli una forza simbolica dirompente, eppure Bergamìn non si ferma, va oltre. La sua Antigone, in un lungo monologo che precede la sua fine, sbriciola il pane lasciandone cadere le molliche e versa il vino in terra perché esso ritorni nel suo alveo naturale. Spezzare il pane  e versare il vino sono gesti che fanno di Antigone una martire, ella affronta la morte sorretta da un rito che definisce il suo rapporto con la vita e con la morte. Non c’è dubbio tuttavia che accanto alla solida matrice cristiana, “Il sangue di Antigone” abbia anche una forte influenza politica, essa, come si è detto, è stata concepita e strutturata durante gli anni dell’esilio parigino: Bergamìn aveva dovuto lasciare la Spagna franchista per la seconda volta e il suo rapporto con la propria terra sarà sempre all’insegna di un esilio mai per davvero finito. Entrerà e uscirà dalla Spagna ancora altre volte, Antigone rappresenta, come egli stesso ebbe modo di dire in un’intervista, “il silenzio di altrettanti migliaia, sarà meglio dire milioni di spagnoli, condannati al silenzio, non solo all’interno della Spagna, ma tante volte anche fuori”. L’Antigone di Bergamìn non provoca, non ha bisogno di aggressività nel suo esprimersi, è il silenzio, invece, il tempo e il luogo in cui la sua azione trova posto, un silenzio in cui ella è costretta a gridare la sua verità. Il silenzio, per l’appunto, in cui tanti spagnoli, sotto la dittatura di Franco, sono scivolati anche scegliendo volontariamente la via dell’esilio. Per José Bergamìn non sarà così, la sua costante opera di opposizione al regime attraverso le pagine di giornali stranieri gli costerà ancora una volta l’allontanamento da Madrid agli inizi degli anni ‘60. Bergamìn sceglierà di non cedere mai al silenzio, il silenzio assordante che per l’appunto circonda la sua Antigone, che grida, ancora una volta con immagine biblica, come profeta nel deserto. Anche nell’opera di Bergamìn, infine, come in tutte le tragedie, molte domande rimangono senza risposta e restano aperte, le stesse che Tiresia e il Coro ripetono nel loro intervento finale: “Per chi muore Antigone?” “Per che cosa muore?”.
La morte non può che contenere, d’altronde, un senso di assoluta inafferabilità