venerdì 18 aprile 2014

ANCORA UN MONOLOGO, ANCORA UNA SCENA VUOTA

L'AIUTANTE DI BRUSEK

di e con Stefano Pietro Detassis
testo di Carlo Cenini


visto a Teatro a l'Avogaria - Venezia il 15/04/2014
recensione apparsa su www.teatro.org






Cosa si può scrivere di uno spettacolo come “L’aiutante di Brusek” scritto da Carlo Cenni, diretto e interpretato da Stefano Pietro Detassis, andato in scena come penultimo appuntamento della rassegna dei Martedì al Teatro de l’Avogaria di Venezia? La domanda, per niente retorica, conduce invece a una risposta che forse bisogna di maggiori spiegazioni.
Dunque, “L’aiutante di Brusek” è un monologo, uno di quelli che spopolano ormai nei circuiti delle piccole sale, dove l’incasso è quello che è e bisogna pur tirare avanti in qualche modo. Quindi una scena generosamente vuota, l’ennesima, con una sedia/sgabello, l’ennesima/o, posta al centro del palco e illuminata con ostinazione da fari che di tanto in tanto passano da una gelatina all’altra per sottolineare un movimento, se movimento si può chiamare un cambio di seduta foriero di chissà quali significati reconditi. L’attore, astratto nella sua mise clownesca, è lì per raccontarci l’ennesima storia sospesa tra realismo e ironia tragica, che sembri vera ma solo fino a un certo punto, che sembri falsa ma solo fino a che non se ne comprenda l’aspetto surreale. Stavolta è la storia di un tale Valmarana che riceve mezzo posta dallo scienziato Brusek, da cui il titolo, pacchi e istruzioni per portare a termine crudeli e improbabili esperimenti, su bambini o gatti non importa, volti a scoprire la formula di una miracolosa pomata cicatrizzante i cui effetti collaterali lo stesso Valmarana decide di commercializzare con annunci radio dal sapore grottesco.
Ma, per l’appunto, come si diceva, si tratta dell’ennesima storia raccontata e non agita, non agita nel senso letterale del termine: sul palco non succede nulla, tutto è affidato al personaggio che, al solito, è in sé protagonista/narratore/personaggi minori e così via, che spiega al pubblico continuando a recitare se stesso. Si siede o si alza, cambia posizione rimanendo seduto, tira fuori dalle tasche due pere che sono, a quanto ci viene detto, i figli che ha deciso di sacrificare sull’altare della ricerca pseudoscientifica di Brusek, per questo motivo, nel finale, ne mangia addirittura uno, come una vorace Medea, tutto questo continuando a raccontare e a non fare.
Ma è davvero questa la natura del monologo teatrale? Quella di essere puro strumento diegetico? Una volta si diceva, o meglio si insegnava, che la prima regola, la regola d’oro per così dire, per scrivere un monologo era che il personaggio in scena non parlasse per convenzione, cioè tanto per, ma che un motivo lo giustificasse e questo motivo, guarda caso, doveva essere un accadimento scenico, dal semplice trillo di un telefono a un espediente più sofisticato. Insomma, monologo o non monologo, signori siamo pur sempre a teatro.
Persino i grandi affabulatori, monologanti di altra natura, quelli che da Dario Fo arrivano a Davide Enia, passando per Baliani e Paolini, sentono il bisogno di “fare scena”, di riempire la scatola magica con la loro fisicità o con oggetti che maneggiano, usano e fanno vivere, rompendo con decisione la quarta parete. Invece, il nostro Valmarana, interpretato da un seppur volenteroso Stefano Pietro Detassis, interpreta se stesso, ma chissà perché parla con il pubblico, timidamente restio a scavalcare la famosa quarta parete. Così la storia dell’aiutante di Brusek scorre per cinquanta minuti senza tensioni, senza picchi emotivi, senza qualcosa che giustifichi l’essere andati a teatro ad ascoltarla, piuttosto che essere rimasti a casa a leggersela comodamente da un libro o da un pamphlet.
Così, per rispondere alla domanda iniziale, di questi cinquanta minuti c’è ben poco da raccontare: la storia di Valmarana e Brusek è stata sopra sintetizzata, dello sgabello si è detto, delle pere, di cui una mangiata, anche, i calzoni tenuti da bretelle e la t-shirt bianca indossati dall’attore sono stati condensati infine nell’espressione “mise clownesca”.
E’ tutto.