giovedì 14 febbraio 2013

Macbeth

di William Shakespeare (trad. it di Nadia Fusini)


Regia di Andrea De Rosa


Produzione: Teatro Stabile di Torino, Teatro Stabile del Veneto "Carlo Goldoni"


Con: Giuseppe Battiston, Frédérique Loliée, Ivan Alovisio, Marco Vergani, Riccardo Lombardo, Stefano Scandaletti, Valentina Diana, Gennaro Di Colandrea




“Una domanda sembra attraversare il Macbeth di Willialm Shakespeare: chi siamo noi veramente?”. Cominciano così le note di regia di Andrea De Rosa, con questo assunto, che è poi una domanda, sul quale egli ha costruito la sua personale messa in scena del capolavoro shakespeariano. Il magma indistinto di odio e amore, crudeltà, ambizione e pietà, che abita l’animo umano di Macbeth viene esplorato e condiviso con il pubblico. Le mezze luci di sala restano aperte per i primi venti minuti del dramma, togliendo agli spettatori il buio rassicurante e onirico della platea: le vicende di Macbeth non sono sogno ipnotico, ma realtà da guardare a viso scoperto.
Più tardi Malcolm, erede senza trono di re Duncan, tornerà più volte in proscenio ripetendosi “chi sono io veramente?”, ma includendo nel suo l’io di ognuno di noi e invitando con insistenza il pubblico a rispondere. Ma chi può davvero rispondere ad una tale domanda? Nessuno. Neanche Macbeth, travolto da un desiderio di potere che ben presto diventa necessità da seguire. Un desiderio instillato dalla profezia delle streghe, “Tu sarai Re”, che in scena si sono trasformate in bambolotti dalle voci di bambini, perché, come tutti i desideri, anche quello di Macbeth prende corpo in una dimensione infantile, nasce confuso e insicuro, sarà Lady Macbeth a tracciarne la strada e a farlo diventare modus vivendi, come si conviene ad un adulto. L’universo infantile ritorna nei lettini, adatti più ad una casa di bambole che ad una reggia, in cui entrambi i Macbeth tentano inutilmente di trovare pace addormentandosi  e dove Lady Macbeth partorirà decine di feti già morti con l’aiuto di un’orrida Ecate o, ancora, nel piccolo tavolo con sedioline regali intorno al quale i Macbeth, divenuti ormai re e regina, prendono posto cercando inutilmente di far sedere anche gli altri cortigiani. Un Macbeth spietato ma, come un bambino, terrorizzato da un fantasma, quello di Banquo di cui lui stesso ha ordinato la morte, come un bambino è spaventato dal buio, ingaggia una vera e propria lotta con la lampada a stelo sistemata dietro il divano, la spegne e la riaccende in continuazione, scoprendo che l’oscurità avvolge i delitti ma ne rivela l’angoscia, mentre la luce, mettendo a nudo ogni cosa, non è per questo più rassicurante. Infantile è lo stesso Malcom che di fronte al sangue è assalito da continui conati di vomito e, alle proposte di Macduff di spodestare Macbeth, risponde capricciosamente di non esserne in grado perché corroso dai vizi, così Seyton, chiuso nell’isolamento autistico delle proprie cuffiette, che, nonostante Lady Macbeth gli vieti di raccontare quello che ha visto, insiste con broncio da bambino a ripetere quello che, in ogni caso, aveva deciso di dire, puerile è infine l’incredulità con cui Macduff rifiuta il racconto di Ross sulla morte di sua moglie e dei suoi figli. Una strada di sangue, che corrompe e moltiplica all’infinito il desiderio di corruzione, percorsa in una sorta di ottundimento in bilico tra edonismo, incoscienza e barbariche eccitazioni, dalla festa iniziale in cui l’alcool eccita il riso sfrenato in una spirale da fine impero, alla danza, sul cadavere di Lady Macduff, di Seyton che sotto luci stroboscopiche si spinge fino a di moderno cannibalismo, per arrivare, nella scena finale, alla fitta foresta di feti sanguinolenti tenuti per i piedi che oscillano come rami stregati all’impeto del vento. Battiston disegna un Macbeth perplesso nel suo continuo specchiarsi in se stesso, un Macbeth che sembra accorgersi della propria assurda irresponsabilità solo a tratti, senza mai crederci fino in fondo, senza mai capirne per davvero la portata. Tenero e irritante al tempo stesso il Malcolm di Stefano Scandaletti, asciutto e diretto Riccardo Lombardo in Macduff, Gennaro Di Colandrea ha costruito un Seyton dai tratti metropolitani, dove la violenza sotterranea e repressa trova improvvise vie d’uscita deflagranti. Sottotono, invece, Frédérique Loliée, che poco o nulla concede ad un personaggio come Lady Macbeth, giustamente identificata come una delle maggiori incarnazioni del male nella letteratura di tutti i tempi.
Angelo Callipo