giovedì 14 febbraio 2013


APPUNTI PER UN'ACCORTA GESTIONE DEMOGRAFICA

di e con FEDERICO PAINO   
musiche e design sonoro Lorenzo Binotto disegno luci Vincenzo Pedata

Nella vita perfettamente organizzata di un impiegato qualunque, che coltiva in segreto ideologie razziste e violente, deliri apocalittici, ma anche aspirazioni amorose e timori infantili, irrompe un delitto compiuto "senza colpa".





Inviata del New Yorker a Gerusalemme nel 1961 per seguire il processo ad Adolf Eichmann, primo processo celebrato in Israele contro un criminale nazista, Hanna Arendt scrive ne La banalità del male, nato come resoconto di quell’esperienza giornalistica ma poi divenuto il suo saggio più celebre, che le grandi belve come Hitler, Himmler, Goebbels non avrebbero mai potuto esistere senza la cieca obbedienza, l’assoluta dedizione di semplici esecutori come Eichmann.
E’ il male banale, quello che si nasconde tra le pieghe della quotidianità, quello che appare nelle forme dimesse di un qualsiasi signor Rossi, a generare il Male con l’iniziale maiuscola. Riconoscere il male, dunque, significa cercare di riconoscerne, paradossalmente, le sue forme più scontate e per questo non sempre così immediatamente evidenti. Il protagonista di Appunti per un’accorta gestione demografica, scritto e interpretato da Federico Paino, incarna questo assunto: è un anonimo schiavo della ventiquattrore, di lui non ci viene detto il nome né tanto meno la reale professione, abita la penombra e il silenzio di una casa scelta con cura, ha le sue manie, una fidanzata che non sempre lo capisce, un discreto successo, infine, con altre donne. Questa la sua banalità. E il male? Il male corre veloce in tutti i suoi discorsi sconnessi, apocalittici, grondanti fanatismo ed esaltazione, le parole si susseguono senza un filo logico, come un lungo flusso di coscienza, rimbalzando da una prospettiva all’altra e finendo al capolinea di una pistola puntata contro il pubblico. Scopriamo allora che il signor Rossi in questione vive quasi asserragliato nella propria casa, un bunker in verità, nel quale ha appena segregato la cassiera di un supermercato di cui si era, forse, innamorato e che aveva deciso di proteggere dalle cattiverie del mondo intero, dalla segreteria telefonica che parte continuamente veniamo a conoscenza di altri frammenti, di come quel giorno stesso abbia investito e provocato la morte di un ragazzo, di donne che lo cercano e di fratelli che ne difendono l’onorabilità, di come infine la sua stessa ragazza decida di lasciarlo. Tutto avviene attraverso la segreteria telefonica, l’unico legame con il mondo esterno. Unico legame e anche, drammaturgicamente, unico pretesto che consenta al monologo di Federico Paino di procedere per circa un’ora in scena, perché il suo flusso di coscienza fa fatica ad appigliarsi a quelle stesse situazioni reali che prova a descrivere. Questo signor Rossi è, se vogliamo, indebolito dal suo stesso anonimato, in fondo anche il vicino di pianerottolo, l’insospettabile macchina del male che ti abita accanto, e che avresti detto incapace di ammazzare una mosca, ha un nome e un cognome, una storia che lo rende vero, banale e proprio per questo incredibile. Gli spettatori si chiedono, invece, chi sia questo signore che vaneggia, incollando tra loro schegge di farneticazione e di odio sociale, e soprattutto perché stia raccontando tutto questo proprio a loro, perché siano stati invitati nella sua casa e perché mai quando si rivolge a loro li riconosca, per l’appunto, come spettatori, come pubblico, arrivando a scendere tra le poltrone e ad interagire con le singole persone, con una sovrapposizione di spazi che davvero si fatica a comprendere. Nodi drammaturgici ai quali lo spettacolo non riesce a rispondere. Intanto il flusso di coscienza procede, accompagnato dal costante sottofondo di un comizio acclamatorio che evoca fanatismi tirannici da secolo breve, scandito dagli squilli telefonici cui fa seguito la solita segreteria, così come a tratti fa la sua comparsa un orgasmo femminile, mentre un ticchettio angosciante sembra non cessare mai. Felice appare il registro linguistico scelto dall’attore-autore, nessuna concessione alla retorica, nessuna caduta libresca, così facile in operazioni di questo genere, piuttosto un linguaggio che scivola, questo sì, perfettamente credibile nella sua scontata semplicità. Il racconto di ossessioni ideologico-razziste, il riscatto adulto di un passato infantile trascorso nella sopportazione della cattiveria dei compagni di scuola, la violenza del sequestro di persona, la freddezza con cui viene spiegato e giustificato l’incidente di quel giorno, tutto questo si incanala nelle forme di un linguaggio che riesce a mantenere la giusta misura, l’equilibrio instabile sempre perfettamente gestito tra grottesca ironia e lucida follia: le donne amano le cose semplici, il cazzo e la forza sono cose semplici dice a un certo punto il protagonista, restituendo limpidamente l’amara misura del mondo in cui ritiene di essere costretto a vivere. Nel finale assistiamo, sotto la luce violenta di un video proiettore, ad una vera e propria arringa sulla felicità di un mondo senza puttane, sifilidici, storpi, negri, froci che abortavano l’aria, e un futuro fatto di certezze e ricchezza, un domani migliore nel quale, facendo il verso al bagaglio della retorica mussoliniana, entreremo trionfanti, conquistando l’assoluta libertà. Sulle note di Non, je ne regrette rien della Piaf e sull’immobilità sorridente e soddisfatta del protagonista si spengono le luci, lasciando ancora una volta interdetto il pubblico che non sa decidersi se applaudire oppure no. Quel pubblico, chiamato in causa continuamente nel corso dello spettacolo, non riesce a capire se quel lungo racconto sia per davvero finito. Il monologo, dunque, finisce così com’è iniziato, in un delirio che non ammette un vero incipit e neanche un vero the end , ma a volte la grammatica scenica, in tutta la sua banalità, quella poco o nulla concettuale, suggerirebbe che chi ha prenotato un posto in teatro potesse prendersi il gusto di battere le mani quando scorrono i titoli di coda.

visto al Teatro a L'Avogaria - Venezia il 12/02/2013
Angelo Callipo