giovedì 14 febbraio 2013


IL SERVITORE DI DUE PADRONI 
PER BARACCA E BURATTINI

di Carlo Goldoni

spettacolo ideato e costruito da Antonella Zaggia e Piermario Vescovo

con Linda Bobbo, Maria Ghelfi, Valentina Recchia, Marika Tesser, Antonella Zaggia

aiuto regia Michela Degano

visto al Teatro l'Avogaria - Venezia   il 30/12/2012



Il teatro dei burattini è, da sempre, il teatro delle piazze, delle feste popolari, delle domeniche pomeriggio in passeggiata familiare, quello che si rivolge a bambini attirati dallo zucchero filato e a genitori sicuri di aver scelto per i propri figli un sano divertimento. Il teatro dei burattini ha un sapore antico, lo sguardo rivolto al passato e sembra non avere nessuna intenzione di spintonare per un posto nel prossimo futuro.
Il teatro dei burattini gode ancora, però, di una vitalità che supera questa premessa, come dimostrano le numerose compagnie di burattinai ancora attive nel nostro paese, soprattutto nelle regioni nord occidentali, che custodiscono con profonda passione un patrimonio inestimabile e come dimostrano anche operazioni coraggiose quale quella del Teatro dell’Orso in Peata di Venezia, fondato da Eugenio Facchin, Piermario Vescovo e Antonella Zaggia, che dal 1988 rivisita la grande tradizione teatrale veneziana e veneta nelle forme del teatro di figura, privilegiando per l’appunto quella dei burattini. Il loro repertorio annovera Gozzi, Beolco, Gallina, perfino Beckett e naturalmente Goldoni. Il Servitore di due padroni, meglio nota come Arlecchino servitore di due padroni, è commedia fin troppo nota per doverne qui riportare la trama, Goldoni la costruisce come un meccanismo perfetto intorno alla figura di una servus currens, Truffaldino prima, nel canovaccio originario, e Arlecchino poi, nel testo finale, che per saziare la sua fame atavica e inesauribile decide di mettersi al servizio di sue padroni, dando vita ad una girandola di guai e di equivoci. Proprio su questa meccanica scenica ad orologeria, come la definisce Vescovo nelle sue note di regia, si innesta e cresce lo spettacolo del Teatro dell’Orso in Peata, una meccanica che si concretizza nella presenza sul palcoscenico di una “macchina”, un cubo rotante che come un ventre materno genera burattini, attori, piatti e stoviglie, coriandoli, navi, espellendoli sulla scena e risucchiandoli poi al proprio interno, in un gioco continuo di dentro e fuori, di dimensione verticale e orizzontale. I burattini si muovono, animati da mani anonime, alla sommità della “macchina”, proprio come si conviene ad un teatro di tal genere, ma poi vengono allo scoperto, appropriandosi del palcoscenico e svelando l’identità dei loro manovratori. Si moltiplicano, dunque, gli spazi, i luoghi e le intenzioni sottese alle battute: i burattini dialogano tra loro, ma anche con i loro padroni umani, gli attori stessi interagiscono semplicemente come attori, ma poi non evitano di rivolgersi anche a burattini mossi da altri, il tutto in un vorticoso susseguirsi delle scene e delle azioni per due ore di fila, senza alcuna interruzione. Un operazione complessa che mette insieme l’ossequio ad uno dei testi più famosi del drammaturgo veneziano, la passione per il teatro di figura, una regia attenta agli spazi e soprattutto al ritmo, la poliedricità delle cinque attrici/burattinaie che agiscono dentro e fuori la macchina, la difficile relazione tra la misura umana e quella, in scala, dei burattini con le loro case di cartapesta e gli utensili poco più grandi di un’unghia. Lo spettacolo cattura l’attenzione del pubblico e ne suscita a più riprese il riso, la lunga scena del servizio a tavola di Truffaldino che assaggia ogni portata e decide in base al proprio gusto chi dei due padroni dovrà mangiarla è esilarante, le attrici/burattinaie che spostano i piatti e le cibarie dei burattini come se avessero la loro dimensione reale continuando a manovrare nell’altra mano il loro personaggio è un gran bel pezzo di bravura e di sguardo d’insieme.  Tre infine gli elementi che penalizzano, almeno in parte, lo spettacolo. L’eccessiva lunghezza, qualche taglio in più al testo sarebbe stato auspicabile, le voci delle attrici che all’interno della “macchina” si affievoliscono eccessivamente, l’improvvisa incursione di brani di musica leggera degli ultimi decenni intonate dalle stesse attrici, non si comprende appieno il motivo di queste cover, come le chiama Vescovo sempre nella sua presentazione, che restano di fatto avulse dall’intera messa in scena.
Angelo Callipo