lunedì 4 marzo 2013

… nun se chiamava manco Ferdinando!




FERDINANDO
di Annibale Ruccello  
Regia: Arturo Cirillo
Cast: Nino Bruno, Arturo Cirillo, Monica Piseddu, Sabrina Scuccimarra
Visto al Teatro Goldoni  il 24/02/2013
 
Ci sono testi che, a dispetto dei pochi decenni di vita che hanno alle spalle, appartengono di diritto alla categoria dei classici. Testi che, nella loro struttura drammaturgica, hanno raggiunto una compiutezza che solitamente riconosciamo solo alla polvere dei secoli. Ferdinando di Annibale Ruccello è uno di questi: un’opera al nero, diretta e graffiante, provocatoriamente realistica, ma calata nelle forme di un dramma borghese, che strizza l’occhio a passioni storiche, l’unità d’Italia e il Savoia invasore delle terre borboniche, e che fa proprie l’unità di luogo, la claustrofobica stanza da letto di Donna Clotilde nella quale si consuma ogni relazione tra i personaggi, e di azione, il triangolo di invidie, gelosie e cattiverie che lega tra loro la baronessa allettata, sua cugina nonché femme de chambre Gesualda, Don Catello confessore di entrambe e amante della seconda, con il successivo innnesto del giovane Ferdinando, conteso da tutti e tre.
Ma, sottolinea nelle sue note di regia Arturo Cirillo “rileggendolo meglio… mi è apparso come un travestimento, un povero e meschino cerimoniale, come certi testi di Jean Genet…” e da questa sensazione è partito il suo lavoro di messa in scena e tradimento, scivolando da dramma borghese a teatro della crudeltà e rileggendo la prospettiva storico-realistica del testo in termini di finzione scenica necessaria a contenere il gioco dell’inganno, unico e vero protagonista della pièce. L’inganno, infatti, come nella migliore tradizione plautina o molieriana, è il motore dell’azione, ma, diversamente dagli illustri precedenti citati, non confluisce nella figura di un solitario antieroe da commedia, piuttosto diventa trasfigurazione della stessa condizione umana e per questo si svela su più livelli. Donna Clotilde, in cui il disgusto per la nascente Italia e il suo italiano, “tra me e isse ce fuie nu duelle a Gaeta”, si mescola alla decadenza della sua nobile casata, recita la parte del malato immaginario al quale tutti fanno mostra di credere; Gesualda, ingannando Clotilde con la sua aria di donna timorata di Dio, intesse una segreta relazione con Don Catello che ogni giorno giunge a confortare lo spirito della baronessa, soddisfare il corpo di Gesualda, dare libero sfogo al proprio desiderio di peccare senza neanche disfarsi della tonaca. L’arrivo di Ferdinando moltiplicherà, come in un gioco di specchi, gli inganni, ma riconducendoli, stavolta, alla sua stessa persona: tutti lo desiderano, tutti si depistano a vicenda, tutti scendono a patti con gli altri. Sarà Ferdinando stesso, alla fine, a svelare l’inganno che chiuderà i giochi . “Gesualdì!... Gesualdì!”, sarà, infatti, l’ultima battuta di Donna Clotilde, “ce pienze… nun se chiamava manco Ferdinando!”, seguita da una risata che riconsegna le due protagoniste alla soffocante vita di sempre, mentre ai loro piedi giace il cadavere di Don Catello appena avvelenato. La messa in scena di Cirillo sostiene il clima di amara tragedia sotteso a tutta la vicenda con un sapiente equilibrio tra ironia e disperazione, le torbide relazioni dei quattro personaggi si tendono e si rilasciano come elastici, concedendo spesso al pubblico occasioni per sorridere e partecipare vivacemente all’azione. Bello il disegno luci che apre improvvisi squarci su ambienti “altri” rispetto alla camera di Clotilde, come nel primo approccio erotico tra Don Catello e Gesualdina che si consuma nella protettiva penombra di un angolo della scena, o inchioda alle tavole del palcoscenico ansie e timori, come quando l’attesa per l’arrivo di Ferdinando si trasforma in inquietudine nel passaggio di Gesualdina e Don Catello da un cono di luce all’altro. Un enorme tappeto scolorito unisce pavimento e fondale della camera da letto, mentre un lampadario abbandonato a terra e poi tirato su da Don Catello farà da testimone dell’avvenuto cambio di abitudini nella casa della baronessa dopo l’arrivo di Ferdinando. Sabrina Scuccimarra, dopo aver sostituito la camicia ottocentesca per una lingerie indubbiamente più provocante, passa con grande sensibilità interpretativa dalla Clotilde-inferma, petulante e maldicente, alla Clotilde-donna che altro strazio non chiede se non quello del proprio corpo sotto le carezze e la passione del giovane nipote Ferdinando; Monica Piseddu si cala perfettamente nel monolitico ruolo di Gesualdina, costringendo i propri istinti nel monacale abito nero e dosando con ruvida delicatezza gli scoppi di rabbia con voglia di tenerezza; Don Catello è un Arturo Cirillo contenuto e dolente, che non supera mai la misura e spesso lascia intendere più che dire. Qualche dubbio, infine, ci resta su Ferdinando, un Nino Bruno più vicino ad uno scolaretto che esegue con diligenza il proprio compito che a quella laida sensualità che ci aspetteremmo dal suo personaggio. Il pubblico del Goldoni ha mostrato apprezzamenti sinceri e tributato un lungo applauso ai protagonisti.




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