domenica 8 dicembre 2013

QUANDO IL POTERE E' DI TUTTI

SIOR TITA PARON

di Gino Rocca 
per la regia di Lorenzo Maragoni 
Compagnia: Teatro Stabile del Veneto e Umanesimo Latino Spa 
con Anna De Franceschi, Davide Dolores, Francesco Folena Comini, Riccardo Maschi, Giacomo Rossetto, Laura Serena, Andrea Tonin, Anna Tringali.

Visto il 06/12/2013 a Venezia (VE) 
Teatro Carlo Goldoni

recensione apparsa su //www.teatro.org


Il potere, era solito dire chi di potere se ne intendeva, logora chi non ce l’ha, ma il potere, a ben vedere, logora ancor di più quando, pur avendolo, ti capita di doverlo dividere con gli altri, quando, cioè, da assoluto si fa relativo e decisioni comunitarie sostituiscono i diktat. Al tiranno obbedirai o farai la guerra, a chi concorre alle tue stesse aspirazioni di potere, invece, molto probabilmente farai le scarpe. Chi può negare che nessuna guerra sia più spietata di questa? Gino Rocca nel suo Sior Tita paron prova a ritrarre il meccanismo perverso di un gruppo di servi che, morto il padrone, abbandonano ogni remora nel gestire  traffici e ruberie che un tempo, vivo ancora il vecchio tiranno, mantenevano clandestini. 



Uno di loro, però, sior Tita per l’appunto, all’apertura del testamento si ritrova erede di tutto il patrimonio e assume così la veste di nuovo padrone, nuovo perché succede al precedente, nuovo perché, cambiando la sua condizione, di ordini non dovrà più riceverne ma piuttosto impartirne. Ben presto però l’ostilità dei suoi vecchi compagni di servitù lo porterà ad abdicare, delegherà loro ogni potere per tornare alle sue mansioni di domestico. I nuovi padroni si scannano, sono in perpetuo disaccordo, rubano l’uno all’altro, finché a loro volta restituiranno ogni decisione a Tita che resterà così l’unico a non avere nessun potere, ma a comandare su tutti. L’esile trama di questa pièce del 1928 si presenta al pubblico di quasi cento anni dopo carica di riflessi contemporanei: la vertigine del potere e i suoi effetti collaterali sono sotto gli occhi di tutti, le creature mostruose che banchettano nei palazzi delle istituzioni decisionali con la stessa ingordigia dei servi dopo il funerale del loro padrone sono interlocutori obbligati con cui fare continuamente i conti. La messa in scena del testo di Rocca ad opera del teatro Stabile del Veneto, in cartellone al Teatro Goldoni di Venezia dal 4 al 6 dicembre per la regia di Lorenzo Maragoni, punta a districare tra effetti esilaranti e grottesche atmosfere la greve assurdità di uomini che si mettono in fila per ricevere la loro misera razione di autorità. Sono rappresentanti della specie umana tipologicamente segnati i nostri personaggi, dall’ortolano Nane con la sua spigolosità litigiosa fino allo stalliere Serafin perennemente ondeggiante per aver alzato il gomito una volta di troppo passando per la cuoca Carlotta che asseconda le circostanze con opportunismo acidulo e sgraziato. Al centro di questo carillon c’è Tita che fa, metaforicamente, a pugni con tutti, perfino con se stesso, ma poi un ceffone lo tira per davvero a Stropolo, il più giovane dei servi di casa, mandandolo prima al tappeto e poi fuori di casa con la minaccia di un licenziamento in tronco. Tita non sa decidere da quale parte stare, se, per dirla con Totò, essere uomo o caporale, perché i due ruoli si scambiano con estrema facilità, quando la propria esistenza si gioca continuamente in bilico tra miseria e riscatto. Proudhon asseriva che ogni schiavo sogna, più che il raggiungimento della libertà, la possibilità di sostituirsi al proprio padrone. E’ quello che accade ai nuovi padroni, la frenesia del potere li rende maschere di se stessi, non è la libertà conquistata il motore che li spinge ma la voglia quasi disumana di essere al posto di chi era sopra di loro. Giusta allora la sciatteria kitch con cui Nane e gli altri si presentano all’inizio del secondo atto, su una sorta di passerella, tra amplificazioni ossessionanti e luci caleidoscopiche, va in scena una sfilata delle vanità di quart’ordine che trasuda fittizie aspirazioni e deliranti protagonismi. Il potere è arrivato, il senso della misura si è irrimediabilmente perso. Tuttavia, propria in questa stessa scena ci sembra di poter ravvisare il limite dell’impostazione registica dell’intero spettacolo, Maragoni accenna e non porta fino in fondo nessuna stoccata: la passerella è divertente e, come si è detto, giusta, ma niente affatto provocatoria, il kitch è disseminato a chiazze, Carlotta ad esempio sfoggia un elegante abitino nero e rosso con scarpe di gusto, mentre Nane con la sua rozza giacca non va al di là di una parodia del mugnaio padano. Per questi motivi, il meccanismo comico, nelle pieghe del quale si nasconde il dramma, fatica a decollare, lo spettacolo rimane seduto su se stesso e il primo atto, in particolare, segna a tratti il passo alla noia. In scena ci sono sei porte, ognuna conduce all’antro di uno dei servi, lo spettatore intuisce che quelle porte rappresentano il fulcro dell’azione, eppure esse rimangono inanimate, nessun intreccio, nessun gioco le mette in movimento, restano lì a segnare lo spazio, ma non mettono gli spazi in comunicazione tra loro. Così, inspiegabile, nell’economia della geometrica scenica, resta la seconda sfilata dei nuovi padroni, ovvero quella che si consuma nel finale, quando Nane, Serafin, Teresa, Carlotta e Stropolo consegnano nelle mani di Tita una carta con cui gli conferiscono mandato per gestire l’intero patrimonio: uno alla volta entrano dalla vetrata centrale uscendo poi dalla stessa, tutti tranne Teresa che sparisce in platea, e anche questa intenzione in verità ci sfugge, entrano e escono in fila indiana, quasi incontrandosi ma al tempo stesso facendo finta di niente, chi esce lo fa svoltando a destra chi entra arriva da sinistra, producendo una didascalia dei gesti che lascia piuttosto perplessi. Un plauso va agli attori, giovani e grintosi senza dubbio, anche se a tratti un po’ sopra le righe e in difficoltà con la voce quando si muovono nella parte più interna della scena, che si sono mossi con sicurezza e affiatamento, dimostrando, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto il teatro italiano abbia bisogno di puntare su forze nuove e fresche. Resta il rammarico che tali forze, quando con coraggio, e questo va senz’altro riconosciuto allo Stabile del Veneto, vengono promosse su palcoscenici di giro, siano poi imbrigliate in uno spettacolo senza mordente e che sa di dejà vu.