ANCORA UN MONOLOGO, ANCORA UNA SCENA VUOTA
L'AIUTANTE DI BRUSEK
di e con Stefano Pietro Detassis
testo di Carlo Cenini
visto a Teatro a l'Avogaria - Venezia il 15/04/2014
recensione apparsa su www.teatro.org
Cosa si può scrivere di uno
spettacolo come “L’aiutante di Brusek” scritto da Carlo Cenni, diretto e
interpretato da Stefano Pietro Detassis, andato in scena come penultimo
appuntamento della rassegna dei Martedì al Teatro de l’Avogaria di Venezia? La
domanda, per niente retorica, conduce invece a una risposta che forse bisogna
di maggiori spiegazioni.
Dunque, “L’aiutante di Brusek” è un monologo, uno di
quelli che spopolano ormai nei circuiti delle piccole sale, dove l’incasso è
quello che è e bisogna pur tirare avanti in qualche modo. Quindi una scena generosamente
vuota, l’ennesima, con una sedia/sgabello, l’ennesima/o, posta al centro del
palco e illuminata con ostinazione da fari che di tanto in tanto passano da una
gelatina all’altra per sottolineare un movimento, se movimento si può chiamare
un cambio di seduta foriero di chissà quali significati reconditi. L’attore,
astratto nella sua mise clownesca, è lì per raccontarci l’ennesima storia
sospesa tra realismo e ironia tragica, che sembri vera ma solo fino a un certo
punto, che sembri falsa ma solo fino a che non se ne comprenda l’aspetto
surreale. Stavolta è la storia di un tale Valmarana che riceve mezzo posta
dallo scienziato Brusek, da cui il titolo, pacchi e istruzioni per portare a
termine crudeli e improbabili esperimenti, su bambini o gatti non importa, volti
a scoprire la formula di una miracolosa pomata cicatrizzante i cui effetti
collaterali lo stesso Valmarana decide di commercializzare con annunci radio
dal sapore grottesco.
Ma, per l’appunto, come si diceva, si tratta dell’ennesima
storia raccontata e non agita, non agita nel senso letterale del termine: sul
palco non succede nulla, tutto è affidato al personaggio che, al solito, è in sé
protagonista/narratore/personaggi minori e così via, che spiega al pubblico
continuando a recitare se stesso. Si siede o si alza, cambia posizione rimanendo
seduto, tira fuori dalle tasche due pere che sono, a quanto ci viene detto, i
figli che ha deciso di sacrificare sull’altare della ricerca pseudoscientifica
di Brusek, per questo motivo, nel finale, ne mangia addirittura uno, come una
vorace Medea, tutto questo continuando a raccontare e a non fare.
Ma è davvero
questa la natura del monologo teatrale? Quella di essere puro strumento
diegetico? Una volta si diceva, o meglio si insegnava, che la prima regola, la
regola d’oro per così dire, per scrivere un monologo era che il personaggio in
scena non parlasse per convenzione, cioè tanto per, ma che un motivo lo
giustificasse e questo motivo, guarda caso, doveva essere un accadimento
scenico, dal semplice trillo di un telefono a un espediente più sofisticato.
Insomma, monologo o non monologo, signori siamo pur sempre a teatro.
Persino i
grandi affabulatori, monologanti di altra natura, quelli che da Dario Fo
arrivano a Davide Enia, passando per Baliani e Paolini, sentono il bisogno di “fare
scena”, di riempire la scatola magica con la loro fisicità o con oggetti che
maneggiano, usano e fanno vivere, rompendo con decisione la quarta parete. Invece,
il nostro Valmarana, interpretato da un seppur volenteroso Stefano Pietro
Detassis, interpreta se stesso, ma chissà perché parla con il pubblico,
timidamente restio a scavalcare la famosa quarta parete. Così la storia dell’aiutante
di Brusek scorre per cinquanta minuti senza tensioni, senza picchi emotivi,
senza qualcosa che giustifichi l’essere andati a teatro ad ascoltarla,
piuttosto che essere rimasti a casa a leggersela comodamente da un libro o da
un pamphlet.
Così, per rispondere alla domanda iniziale, di questi cinquanta
minuti c’è ben poco da raccontare: la storia di Valmarana e Brusek è stata
sopra sintetizzata, dello sgabello si è detto, delle pere, di cui una mangiata,
anche, i calzoni tenuti da bretelle e la t-shirt bianca indossati dall’attore sono
stati condensati infine nell’espressione “mise clownesca”.
E’ tutto.