HEDDA GABLER
di H. Ibsen
con
Manuela Mandracchia, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Luciano Roman, Massimo Nicolini, Laura Piazza.
Regia di Antonio Calenda
visto al Teatro Goldoni di Venezia il 10/01/2014
recensione apparsa su www.teatro.org
Ibsen scrive il
dramma di Hedda Gabler nel 1890
quando la sua produzione drammaturgica è ormai giunta alla piena maturità e i
palcoscenici europei se lo contendono, lo scrive come terzo e ultimo tempo di
una trilogia tutta al femminile che comprendeva Rosmersholm (1886) e La
Signora del mare (1888), in cui il grande tema nascosto dell’incesto
ritorna oscuro e deflagrante.
Hedda Gabler,
pur avendo appena sposato Tesman, ha mantenuto il cognome di suo padre, il
grande generale Gabler che campeggia arcigno e onnipresente in un ritratto
nella sala di fondo della nuova casa che accoglie gli sposi al ritorno del
viaggio di nozze, scena con cui ha inizio l’intera vicenda. In quella stessa
sala Hedda sposterà il pianoforte, altro lascito paterno, e lì custodisce le
pistole d’ordinanza del generale, in una sorta di santuario dedicato alla
memoria del padre dove i fiori che arrivano come doni nuziali si trasformano
immancabilmente in omaggi funebri. E’ in quella stanza infine che Hedda, dopo essersi
allontanata tanto dal ricatto sessuale del giudice Brack tanto dall’assurda
mania filologica di Tesman e Thea Elvsted impegnati a ricostruire gli appunti
lasciati da Lovborg, si ucciderà con l’ultima pistola paterna rimastale e dopo
aver suonato un’ultima volta il pianoforte, quasi a voler ricapitolare tutta la
propria vita.
Hedda è
sicuramente una delle eroine più potenti del teatro moderno europeo e bene ha
fatto Antonio Calenda a volerne rileggere la storia, affidando alla bravissima
Manuela Mandracchia un ruolo difficile ed esaltante al tempo stesso. Calenda ha
sentito tutta la seduzione di una figura femminile inquieta e palpitante, alla
quale il drammaturgo norvegese ha affidato il compito di mostrare quanto una
vita borghese scandita da doveri formali e impegni comunitari possa ritrovarsi
sull’orlo dell’abisso per poi precipitarvi: Hedda vive nel culto del padre, ha
sposato un uomo che non ama e che trova immensamente sciocco nella sua
ingenuità, rifiuta di ammettere la propria maternità perché sa bene che essa è
frutto di un incesto consumato ben prima delle nozze, è legata da una febbrile
eccitazione allo scontroso e ambiguo Lovborg di cui si diverte a decidere vita
e morte spingendolo al suicidio, trova detestabile le attenzioni soffocanti
della zia di suo marito alla quale concede tuttavia un abbigliamento consono al
lutto per la morte della sorella, attraversa infine le avances del giudice Brack senza mai davvero cedere per un senso di
fedeltà tutto suo che la lega non allo sposo, semmai al generale di cui ha
conservato il cognome.
Manuela
Mandracchia percorre ogni stato d’animo di Hedda entrando nelle sue pieghe più
profonde, alternando stati di esaltazione, “E’
una liberazione sapere che nel mondo possa accadere qualcosa di forte, di
libero…” a rigurgiti di noia, “Io mi
annoio, giudice, mi annoio…”, scatti contenuti, la zia di Tesman le posa in
segno di affetto le dita sulle tempie e lei se ne libera con un “mi lasci, mi lasci”, ad abbandoni sulle
dormeuses ai lati della scena o sulla
panca posta al centro di essa. La regia tende a sottolineare ripetutamente l’elemento
psicanalitico, peraltro già ampiamente scoperto nel testo: il rapporto edipico
invertito che lega la figlia al padre, l’elemento fallico delle pistole, il
rifiuto della maternità che si fa addirittura simbolo quando Hedda brucia nel
camino il manoscritto di Lovborg definendolo creatura sua e di Thea “Ora brucio il tuo bambino, Thea… ecco, lo
brucio, lo brucio”. Tuttavia la regia vi indugia sfiorando in alcuni
momenti un eccesso di didascalismo, quando per esempio in una delle tante
visite di Brack quest’ultimo si accomoda su una sedia, che tra l’altro è
costretto a prendere con un movimento rocambolesco, proprio dietro il lettino
su cui Hedda si è appena sdraiata, facendo così il verso alla più trita
iconografia di psicoanalista e paziente.
Interessante
appare, invece, il rapporto che lega la protagonista a Thea, vittima del
fascino di Lovborg che rincorre spasmodicamente: Hedda gelosa di un rapporto
che non le appartiene più, ma soprattutto consapevole di aver perso ogni potere
su Lovborg, accoglie Thea attirandola nella sua rete, una rete dalle maglie
strettissime degne di una Medea, riesumando il loro passato di compagne di
scuola e sollecitando in lei una maggiore confidenza, ma colpendola poi con la
condanna “Cosa pensi che dirà di te la
gente?”, facendo cioè appello a quella costrizione sociale che lei ritiene
invece per se stessa insulsa. Infine, alla comparsa di Tesman suo marito, decide
che sia arrivato il tempo di terminare il colloquio e nonostante Thea sembri
voler restare, la liquida con un “Adesso
la signora Elvsted vuole andare, io credo”, e in quel io credo sta tutta la voglia di potere sugli altri di cui ella sia
capace. La regia interpreta molto bene questo lungo dialogo tra Hedda e Thea,
comprendendone la crucialità: Hedda è sciolta, si muove sicura e con
un’elasticità cui in Thea corrisponde altrettanta rigidità, è la sicurezza
della donna borghese figlia di cotanto padre e novella sposa, ma anche
soprattutto la disinvoltura della sua modernità e della sua spregiudicatezza
che si impongono alla paura e allo spaesamento di Thea. La spregiudicatezza di
Hedda si spinge fino ad una accennata lussuria che sembra unire le due donne,
Calenda costruisce una Hedda sensuale che qui gioca con i sentimenti di una
Thea bambina, quasi adescandola.
L’Hedda Gabler
di Antonio Calenda e dello Stabile del Friuli Venezia Giulia corre lungo le sue
quasi tre ore senza stancare, anche perché il regista napoletano non rinuncia
ad aprire squarci di ironia che allettano lo spettatore, ma che nella parte
finale fanno virare lo spettacolo verso una tragicommedia che probabilmente
Ibsen non aveva neanche immaginato. Così, nonostante una scenografia che
solleva qualche dubbio (il caminetto che
brilla di un fuoco grottescamente finto e che assomiglia a quelli delle
statuine da presepe) e luci a tratti prive di profondità (troppo fredda e
violenta, quasi un grappolo di neon, per esempio quella che arriva da fuori
ogni qualvolta si aprono gli scuri delle finestre), le inquietudini ibseniane e
il suo linguaggio denso, resituito dall’ottima traduzione di Roberto Alonge,
arrivano al pubblico mantenendo intatto il vigore introspettivo. Lunghi e
meritatissimi applausi per la Mandracchia, tra gli altri interpreti si possono
segnalare Simonetta Cartia, una zia Juliane morigerata e ipocrita al punto
giusto, Federica Rosellini che disegna, soprattutto nella seconda parte, una
Thea nervosa e soccombente e Jacopo Venturiero calato perfettamente nella parte
di un Tesman ingenuo fino al midollo. Poco incisivo il Lovborg di Massimo
Nicolini e troppo accademico il Brack di Luciano Roman.