IL DESERTO DEI TARTARI
di Dino Buzzati
adattamento teatrale di Maura Pettorusso
con Woody Neri
regia Carmen Giordano
visto al Teatro a l'Avogaria il 10/12/2013
recensione apparsa su
www.teatro.org
Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, prodotto da
TrentoSpettacoli, con la drammaturgia di Maura Pettorusso, la regia di Carmen
Giordano e l’interpretazione di Woody Neri, chiude il primo ciclo dei Martedì de l’Avogaria di Venezia per la
stagione 2013-2014, la ripresa, promette il direttore Stefano Poli salutando il
pubblico di affezionati, nei primi mesi del prossimo anno. Fa bene il Teatro a
l’Avogaria, storica sala della tradizione teatrale veneziana, a scommettere
sulla formula dei martedì, formula in verità giunta ormai al quarto anno di
vita, la platea cresciuta settimana dopo settimana ha apprezzato la qualità
delle proposte recuperando in questo appuntamento una necessaria boccata di
ossigeno teatrale. A chiudere la rassegna, dunque, un’operazione teatrale
complessa, la riscrittura drammaturgica di un testo che Buzzati non aveva pensato
per il teatro, ma che al teatro stesso rimanda per i suoi tempi, la dilatazione
metaforica dello spazio, la corposa densità della parola monologante... (...)La storia
non storia del sottotenente Drogo
rimasto trent’anni nella fortezza che presidia un deserto dimenticato da tutti,
ma capace di vomitare, senza alcun preavviso, orde di nemici tartari disposti a
tutto, la sensazione d’impotenza che il protagonista prova di fronte a ciò che
non avverrà mai, mentre la sua ansia febbricitante glielo rende di continuo concreto
davanti agli occhi sono divenute metafora di una condizione esistenziale che
probabilmente neanche lo stesso Buzzati aveva a suo tempo immaginato. Il tema
dell’attesa, d’altronde, attraversa tutto il teatro contemporaneo europeo e
sono fin troppo scontati i titoli che potrebbero dimostrarlo, ma mi piace qui
citare un episodio illuminante. Nel lontano ormai 1990, nella cornice degli
spettacoli classici di Siracusa, Mario Martone metteva in scena I Persiani di
Eschilo, nella cui parodo iniziale il coro di anziani lamenta di non avere più
notizie del giovane Serse, mentre l’attesa produce angoscia profondissima.
Martone amplifica a dismisura questo elemento: nello spazio antistante la
reggia di Susa il popolo persiano attende notizie del suo re, non un suono, non
un lamento, tempi lunghissimi di immobilità invece, gesti ridottissimi, sguardi
preoccupati verso il punto da dove verrà il messaggero, sotto i loro piedi
sabbia finissima, come quella di spiagge mediterranee, come quella di un
deserto, appunto. Carmen Giordano mette in scena un’altra forma di attesa,
quella che sgocciola le ore attraverso tre lampade che occupano la scena e che
lo stesso protagonista provvede a spegnere e ad accendere ritmando il
ticchettio di immaginari orologi, ma c’è anche l’attesa che si diluisce nel
fiume di parole che un’attenta riduzione drammaturgica, quella di Maura
Pettorusso, imbastisce per il Drogo in cui si cala il bravissimo Woody Neri. E’
un’attesa oscura, piena di presagi e di ombre, di personaggi che circondano il
povero sottotenente e che potrebbero essere semplice frutto della sua mente
allucinata, come l’inquietante incrocio tra un manichino e uno spaventapasseri che
si erge in scena nel momento in cui Drogo ricopre con il proprio mantello lo
scheletro di una delle lampade, mettendogli davanti gli stivali di cui si è
appena liberato. Con questo feticcio Drogo parla, si confida, ci litiga anche,
mentre gli anni passano e il riposo di un guerriero che non ha mai partecipato
ad un’azione in campo aperto è tutto lì, in quel suo mettere a bagno i piedi in
un vecchio secchio e starsene seduto sulla spalliera di un’anonima sedia metallica.
L’attesa sveste Drogo di ogni certezza e convinzione militare, gli anni lo
conducono al fondo della sua umanità, Woody Neri riesce a passare dallo
spaesamento amplificato da amare illusioni del sottotenente (Io non l‘ho mai visto il deserto e forse per
questo vale la pena di restare) alla sconfitta rabbiosa dell’uomo (Che cosa mi attende ora?) con un
continuo e ben riuscito equilibrio tra gestualità essenziale e assenza di
qualsiasi ridondanza sonora. La sua voce non è mai orgogliosamente sicura, annaspa
sempre alla ricerca di un perché risolutorio, di una spiegazione che diventi
misura di quella sua attesa per altri inspiegabile e di quel suo essere
perennemente alla frontiera. E’ questo, mi sembra, l’altro elemento
interessante che emerge dalla messa in scena di Carmen Giordano, l’aver colto
cioè l’aspetto del confine, quello
tra fortezza e deserto, tra luce e buio, tra uomo e sottotenente, tra parola e
silenzio, tra partire e restare: Drogo è sempre in attesa ma al tempo stesso
sempre in una terra di mezzo, è lì che si perdono i suoi giorni tra uccelli che
nidificano e uno sbaglio vero o presunto che lì lo ha condotto . E’ la
condizione umana questa, tentennante e fragile, incapace di cogliere l’attimo e
vittima perenne di una condanna che altro non è se non la propria indecisione. Spettacolo
denso e intrigante questo Deserto dei
Tartari, la parola di Buzzati tiene banco e bene ha fatto la Pettorusso a
mantenerne tutta l’intensità, così come la Giordano a lasciare che essa
costituisse l’ossatura principale dello spettacolo. Applausi lunghi e calorosi,
con numerose chiamate in scena, per Woody Neri interprete asciutto, senza
sbavature e dolorosamente profondo.