Mentre le ruspe e i picconi
dell’Isis cancellano secoli di storia, trasformano rovine splendenti in rovine
dannate, riducono frammenti preziosi in anonime schegge frantumate, mentre
Mosul e Hatra si trasformano in mense di un furente banchetto iconoclasta, vado
con la memoria alla primavera di un 2011 ormai troppo lontano anche se
incredibilmente vicino.
Avevo appena firmato un contratto
con l’ACS, onlus che ha sede in territorio vaticano e che si occupa, come
recita l’acronimo della sua sigla, di aiuto alla Chiesa che soffre. Non avevo
mai conosciuto, prima di allora, questa realtà, in fondo erano stati loro a
contattarmi e io non avevo fatto altro che reperire sul web un po’ di notizie
per non presentarmi al primo incontro completamente impreparato.
Così conosco il loro responsabile,
ci vediamo un paio di volte a Roma e alla fine mi commissionano un testo
teatrale, adattabile anche a sceneggiatura per un possibile corto o
lungometraggio, sulla figura di Padre Ragheed Ganni.
Da quel momento, per quasi sei
mesi, mi sono calato nella vita di questo esile e innocuo sacerdote della chiesa
cristiano-caldea di Mosul, un ingegnere chiamato da una vocazione tardiva, che
ottiene una borsa di studio a Roma ma poi torna a spendersi nella sua Mosul. Lì
nel giugno del 2007, ad appena trentaquattro anni, cade sotto i colpi di sicari
mussulmani che lo falciano all’uscita della chiesa. Aveva appena finito di
celebrare la funzione di Pentecoste.
Ho affrontato questo lavoro con
spirito critico e ho premesso, sin dai primi contatti con l’ACS, che non avrei
scritto qualcosa di catechistico, non avrei reso assoluta la cifra religiosa,
d’altronde non ne avevo allora né ho adesso le necessarie competenze, avrei
piuttosto guardato l’umanità di Ragheed, la miscela di coraggio e paura
che si portava dentro tornando in una terra difficile e martoriata come la sua
Mosul. Per i miei committenti Ragheed Ganni era un martire del XXI secolo, per
me cominciava a essere la metafora di un’inquietudine profondissima.
Nella Mosul del dopo Saddam le
forze deliranti di una guerra subdola e violentissima si erano scatenate senza
arretrare davanti a niente, bombe sulle chiese, bombe sugli autobus di ignari
studenti universitari, atti intimidatori, fughe precipitose, emigrazioni
forzate. In questo contesto matura anche l’uccisione di Padre Ragheed Ganni.
Quando nel gennaio del 2012 ho consegnato il lavoro, ho ricevuto franchi
apprezzamenti, intascato il mio onesto compenso di manipolatore di parole e poi
sono uscito per sempre da questa storia. Ancora oggi con Massimo, il direttore
responsabile,sopravvive uno scambio di auguri a Natale, ma nulla di più.
Ragheed Ganni no, lui non è
affatto scomparso, ho vissuto sei mesi frugando nella sua vita, cercando di
comprenderne la testardaggine, cercando finanche di capire se avesse avuto mai
la percezione di essersi votato al martirio. Ho rintracciato Hassam il suo
fraterno amico mussulmano con il quale ha condiviso la parentesi romana, gli ho
scritto una mail ma non ho mai avuto risposta. Forse non era pronto a
spiattellare a un teatrante da strapazzo i suoi ricordi più intimi e personali.
Ragheed Ganni è ancora qui, come un punto interrogativo, come un nodo che non
ho mai sciolto, una presenza ingombrante, un perché lasciato sospeso. A volte mi
capita di metterlo da parte, mesi in cui il suo volto gioviale e profondamente
sereno mi lascia stare, a volte no, a volte si fa insistente e non smette di
provocarmi.
Come, appunto, in questi giorni
in cui la guerra santa dell’Isis ha messo mano alla distruzione della memoria
storica, quella che prescinde da qualsiasi connotazione religiosa. Ho visto le
immagini del museo di Mosul sfigurato senza pietà e Ragheed è ricomparso.
Neanche stavolta ho sentito che inveiva con i suoi fratelli mussulmani, neanche
stavolta come quando ha dovuto raccogliere pezzo per pezzo il misero corpo di
un compagno di classe di sua sorella ha sbraitato che questa potesse essere la fine. Questa non è la fine,
dice Ragheed a Basman nella mia ottava scena, la vera fine sarà la fine dell’odio…
Eppure provo a rileggere quel
testo, quello che avevo scritto con grande fatica, per esempio l'affascinante fatica di conoscere da vicino i riti caldei, quel testo che ingenuamente pensavo
potesse essere un significativo passo avanti nella ricerca, se non proprio di
una concordia, quanto meno di un compromesso accettabile,
Lo rileggo, ma alle prime battute
mi accorgo di una stonatura, c’è qualcosa che non va, qualcosa che non mi
torna, il mio Padre Ragheed parla con Basman, con la sorella Raghad, con Hassam
e tutti gli altri personaggi, perfino con un’anonima bambina che gira per la
chiesa con una strana e misteriosa bambola di nome Maria. Parlano degli
attentati che fanno saltare in aria interi pezzi di Mosul, dei soprusi
continui, della resistenza silenziosa ma tenace della comunità caldea, delle
apprensioni, le angosce, la paura di restare soli. Quella, certo, insieme alla
morte, la paura più grande da sempre. Per tutti.
Non mi occorre leggere tutto il testo
per sapere come andrà a finire, lo so bene, Ragheed sarà crivellato di colpi e
insieme a lui i tre uomini che lo accompagnavano e che un po’ gli facevano da
scorta. Una scorta di tre diaconi, non armati. Una scorta che è già di per sé
un bersaglio.
Cosa non va in quello che leggo e
che io stesso ho scritto? Gli occhi leggono le battute, ma i frames video delle distruzioni di Hatra
e Nimrud, i picconi che decapitano con selvaggia soddisfazione statue e
bassorilievi nelle sale del museo di Mosul, si intromettono e rapidi
attraversano il mio campo visivo. Parole e immagini si confondono, ma non
arrivano a formare un tutt’uno. Sono discordanti, disarmoniche. Eppure lo
scempio è lo stesso, scempio di vite umane, di profili cromati, di mosaici
intarsiati, scempio di sentimenti e di emozioni, scempio di parole andate a
vuoto e di raffiche di kalashnikov che centrano il bersaglio.
No, non è lo stesso. Per niente.
Sono bastati quattro anni e il mio Ragheed è andato, ingrigito, invecchiato.
Esce di scena senza aver ottenuto neanche il minimo di quello che un ingenuo organizzatore di
caratteri come me aveva immaginato. La lotta armata è un camaleonte
imprendibile, adesso si chiama Isis, a quel tempo era ancora marchiata Al Qaeda,
eppure mi ero illuso di raccontare un microcosmo, crudele e feroce ma pur
sempre un microcosmo, invece sbattuti sulle prime pagine dei giornali e nei
titoli delle televisioni ci sono loro, i jhiadisti, i frontalieri del male, che
sradicano dai piedistalli la storia come se scaricassero centinaia di sacchi di
patate.
Il mio Ragheed viveva un fuoco
interiore, uno spasimo abissale, voleva garantire la domenica ai suoi fedeli, i
militari di questa santa guerra invece di se stessi probabilmente non sanno
granchè, gli unici tremori che conoscono sono le oscillazione dell’ennesima
statua che cade fragorosa al suolo, inseguono una vittoria ma non vogliono giocare la partita.
Nel 2011 avevo scelto Ragheed
Ganni perché fosse metafora, oggi che le minacce hanno annichilito qualsiasi
metafora ho dovuto liberarmi di lui. Per sempre.
Alla voce “vuoi cancellare
definitivamente il file?” ho fatto clik su ok.